***OLTRE LA SFERA DEL CENTRO SOCIALE: LA PROSSIMA INSURREZIONE***
PROPONIAMO IN "TEORIA SOCIALE DELLO SPAZIO" UN BREVE SAGGIO DEL 19/2/2020 RIFIUTATO DA KRITIK 2 E CHE HA ANTICIPATO CON INCREDIBILE PRECISIONE LE DINAMICHE TERRITORIALI DELLE RIVOLTE AMERICANE AVVENUTE A PARTIRE DAL 26/5/2020 E A SEGUITO DELL'ARRESTO DA PARTE DELLA POLIZIA DI GEORGE FLOYD E DELLA SUA MORTE.
"OLTRE LA SFERA DEL CENTRO SOCIALE: LA PROSSIMA INSURREZIONE".
Soviet “Perché?”, 19/2/2020, poi in VITALIST INTERNATIONAL.
OLTRE LA SFERA DEL CENTRO SOCIALE: LA PROSSIMA INSURREZIONE.
Soviet “Perché?”, 19/2/2020, poi in VITALIST INTERNATIONAL
1.Fino al 2019 avremmo volentieri utilizzato il termine “de-territorializzazione” per nominare ciò che sta accadendo alle metropoli del pianeta. Ma le mutazioni violente che vi corrispondono sono tali che la stessa guerra di classe non la riguarda più in via esclusiva o, almeno, non proviene più esclusivamente dal suo interno.
2.L’indicibile esige parole nuove senza troppi scrupoli per le parole vecchie e parole nuove non sono possibili senza che le strappi dalla bocca una teoria rivoluzionaria nuova: è ciò che tenteremo in queste 60 tesi. Non si tratta di “de-territorializzazione” perché è saltato per aria il “territorio”: non c’è più niente da “de-territorializzare”.
3.Tutto lo spazio urbanizzato è diramato, disperso, diffuso, disteso, un lack of proximity che non ha più la fisionomia della metropoli compatta o a screziature, da sempre pensata per centro, periferie e margini. Non vi sono più ritornelli che circoscrivono territori, la musica è cambiata e i molti già ballano in modi mai visti prima.
4.Questo significa che rinunceremo alla metropoli? Certamente no. Auspichiamo un ritorno insurrezionale al suo interno dei non garantiti per darne l’assalto e riprendersi le case che sono stati spinti dal Nuovo Capitale a lasciare per lo spazio urbano esangue e diramato.
5.La metropoli non è un insieme di infrastrutture, edifici e manufatti, essa è l’insieme di coloro che vi abitano e dell’uso che ne fanno. Chi vi abita oggi o sono sopravvissuti all’apocalisse urbana o privilegiati che non possono avere alcun interesse a un’insurrezione urbana proprio perché i loro interessi sono tutti concentrati in quella che chiamavamo metropoli.
6.Cosa è accaduto dunque di così audacemente inaspettato? La gentrificazione selvaggia? Ma andiamo! Ancora con queste categorie che non spiegano assolutamente nulla? Ruth Glass concepiva la metropoli a cerchi concentrici, il modello era quello dell’ecologia sociale urbana, evoluzionista e che prendeva a prestito modelli biologici: man mano che si passava a un cerchio più esteriore la densità abitativa si abbassava. Questo modello urbanistico è inservibile a una guerra di classe che abbia già fatto i conti con la postmodernità e ne abbia battuto il pensiero debole.
7.Non vi è Aufhebung possibile dopo Auschwitz? Forse nei libri o nei salotti, ma non con l’antifascismo nelle autostrade e nei roundabout del mondo. Non basta affermare che i ricchi rientrano in centro o nelle periferie “riqualificate”, fanno alzare i prezzi del mercato immobiliare, producono speculazione, anche dal basso, b&bizzano la metropoli ed espellono nel cerchio immediatamente esteriore chi non si può più permettere di abitarvi.
8.Non vogliamo più sentire reclamare “riqualificazione” perché è proprio la “riqualificazione” che espelle i non garantiti dai loro quartieri. Non vogliamo più sentire il dibattito “degrado contro decoro”: è retroguardia! Del decoro non ci è mai fregato un cazzo e nel degrado ci muoviamo come pesci nell’acqua, ma senza guerra di classe, senza un’insurrezione che faccia rientrare i non garantiti nella metropoli, il degrado è solo un’imitazione dello stile di vita della ricca borghesia più decadente alla portata di un proletariato fancazzista che si attarda ad essere postmoderno perché col culo parato.
9.Se non possiamo più pensare al modello della gentrificazione classico è perché sono proprio i b&b ad aver cambiato la composizione sociale degli spazi urbani compatti e non veniteci a parlare di turismo e basta. Nei b&b si spostano anche non garantiti che vivono negli spazi distesi delle città metropolitane per andare a trovare parenti o amici che vivono nella metropoli: è turismo questo? La realtà va analizzata con arguzia e guai a proiettare le proprie malattie intellettuali sull’analisi politica, si sbatte la testa in migliaia di muri almeno tante quante sono numerose le realtà che si dicono a parole rivoluzionarie o critiche oggi.
10.Non cerchi concentrici. Si tratta di un ginepraio di traiettorie che vanno a parare dove è possibile. In un “si salvi chi può” che sta allo spazio urbano come il precariato sta al lavoro. Non deportazioni di massa indirette, ma un abbandono della metropoli in cui ciascuno, individuo o famiglia, insegue il proprio destino singolare.
11.Inoltre, è inoperante anche il concetto di “conurbazione” di Geddes, perché non ci sono più diverse metropoli che crescono a dismisura fino a incontrarsi e a creare un tessuto urbano sul modello dello sprawl anni ’80. Oggi vi sono grumi e coaguli urbani, pezzi di città rappresi che non hanno più nulla a che vedere coi sobborghi di una volta, che fanno impazzire gli urbanisti, i quali non sanno nemmeno come nominarli o individuarli come nuove forme di vita urbana tanto è limitata la loro estensione e tanto non manca loro nulla tra rete, zone commerciali e servizi, tranne il lavoro ovviamente semmai non vi si telelavori.
12.La direzione talvolta della crescita di una metropoli non è verso l’esterno, ma proviene dall’esterno, questi grumi e coaguli crescono fino ad abbordarla e crescendo riempiono lo spazio tra metropoli e metropoli. Dobbiamo immaginare la guerra di classe all’interno di queste nuove condizioni, perché se continueremo a fare appello a chi abita all’interno della metropoli potremmo trovarci davanti a un esercito di imbelli, viziati e inetti a riots che implicano ormai pendolarismo rivoluzionario e accoglienza di compagni che hanno acquisito un modo di vivere completamente loro sconosciuto, fermi come sono nei loro quartieri fighetti e nei loro ritrovi vecchio stile come circoli arci e centri sociali.
13.“Riprendersi la metropoli” non sarà la nostra parola d’ordine. Perché? Perché riteniamo che il conflitto dovrà prima esplodere nello spazio urbano esangue e diramato. Non inseguiamo modelli alla francese da sempre caratterizzati da un’altissima forza di attrazione delle città compatte anche sulle città diffuse, impossibili per noi perché nemmeno abbiamo le infrastrutture (grandi reti metropolitane e su gomma) che lo possano permettere.
14.Qui tutto funziona con le automobili private, con buona pace dei ciclisti rivoluzionari che possono avere la loro parte ma che rischiano di farsi davvero male nello spazio tra una metropoli e l’altra. Quindi piuttosto si tratta di portare il conflitto nello spazio urbano diffuso e si sbagliava anche Ballard perché in questo spazio c’è oggi il sottoproletariato non le classi medie che si sono tutte spostate nelle periferie riqualificate della vecchia metropoli.
15.Poiché riteniamo che la coscienza rivoluzionaria provenga dal mondo delle idee più che da condizioni necessarie pronte a detonare, non si tratta neppure di fare l’errore di andare a istruire come fossero le fabbriche degli operaisti gli abitanti di questi spazi urbani. Semplicemente per ora la situazione è quella del tutti contro tutti, occorre piuttosto cominciare per i compagni più motivati che vivono nella vecchia metropoli di informarsi sulla situazione politica che vi si può trovare e prendere contatti, così come per i compagni più motivati che abitano questi spazi andare a cercare i compagni della vecchia metropoli.
16.Dunque auspichiamo una alleanza mai vista tra i sopravvissuti non garantiti nell’apocalisse della metropoli e gli abitanti del ginepraio urbanizzato delle città metropolitane o delle province. È finita l’epoca in cui si poteva dire che la campagna è abitata da contadini reazionari quando tutto è urbanizzato e la campagna se esiste ancora, sopravvive a mozzichi e bocconi, intercalata tra grumi urbani.
17.Dove c’è urbanizzazione c’è possibilità di rivolta e oggi i veri dannati non stanno nella metropoli. Ogni riot che venga dalla metropoli per la metropoli non è come negli anni ’90 e Duemila, oggi è per noi sospetto di bel gesto inconcludente e poco rivoluzionario qualsiasi sia il suo esito di devastazione e saccheggio. A meno che non si tratti di difendere case occupate, squat e centri sociali.
18.Tuttavia il nemico cambia natura anche qui, perché i fasci sono ormai alleati delle mafie e le strategie di lotta devono trovare il coraggio di affrontarle con nuova intelligenza. Vogliamo vedere i primi riot nelle città diffuse perché quando questo accadrà sarà la scintilla che accenderà un nuovo tipo di guerra di classe e allora sì si avrà il potere di rientrare nella metropoli e infiammarla di nuovo.
19.Allora la metropoli ricomincerà ad esistere e sarà un luogo talmente invivibile per la classi medie e la ricca borghesia che saranno loro stessi a volersene andare, sarà uno scappa scappa generalizzato e si ritroveranno con lo spazio urbano esangue delle città metropolitane e delle province come una unica loro possibilità di scelta, esiliati nel luogo dove avevano esiliato i non garantiti e non ci saranno case di lusso di campagna o al mare che tengano, perché quelle le avremo già da tempo requisite e restituite tutte ai soviet.
20.Quanto a coloro che si atteggiano a rivoluzionari nelle metropoli il clima è talmente stagnante che oscura e annebbia le menti di tutti i ribelli e i rivoluzionari, portando ad atteggiamenti catastrofisti e a una vera e propria epidemia di esoterismo spicciolo e poco approfondito (dal 666 ai tarocchi, dagli oroscopi genetliaci all’alchimia) che non fa capire un cazzo a nessuno del fatto che stanno tutti col culo per terra.
21.Anche qui è un si salvi chi può. Risolto il problema della casa si è risolto metà del problema, l’altra metà è il reddito e poiché il reddito Mamma Capitale non lo offre se non frammentato contrattualmente e precario ognuno e separato dagli altri compagni e non può ricomporsi con essi in quanto soggetto rivoluzionario. In questo stato di cose le separazioni di cui scrivevano i situazionisti non sono più dovuti a paranoie e coltri esistenzialiste, quindi formali, ma a una condizione reale che porta ciascuno a trovare il modo di portare ordine nel disordine, ma spiritualmente, anche laddove si tratti di un’esperienza che assomiglia più al non so dove sbattere la testa che a un vero e proprio esercizio spirituale alla Hadot.
22.Non potendo superare materialmente le separazioni reali in un collettivo o collettivamente, le si realizza in gruppo con la magia bianca, rossa o nera: sticazzi! Pare essere diventato allo stesso tempo il maggior passatempo delle generazioni nuove e vecchie e l’unico modo di fare collettivo: ma è un collettivo? A noi sembrano sette e rimpiangiamo a questo punto le sette politiche.
23.Poiché sembrano più sette che collettivi ci sembra ovvio che facciano poca politica che incida sul reale e molto catastrofismo, cosa devono fare se non aspettare la cometa per suicidarsi in massa come in tutte le sette. Questa cometa può assumere diverse forme. Dall’apocalisse climatica a quella demografica, tanto da portarli in continuazione a isterismi sulla fine del mondo o a tifare estinzione come se fossero parole d’ordine politiche e non boiate da ragazzini che sembrano ancora masturbarsi con il metal.
24.Si lamentano di tutto e inseguono autori cosiddetti radicali che fanno molta poesia sul futuro e hanno in mente poca prassi realistica di trasformazione radicale dell’esistente. Sia chiaro vogliamo che l’immaginazione abbia il potere (non il contrario eh?), ma loro non giocano con l’immaginazione, giocano con il fuoco, perché si tratta di questioni reali e gravi per le quali non sanno come organizzare una forma del politico all’altezza dei tempi e si trastullano con i meme che volendo usare un’antica terminologia marxiana in disuso non è manco sovrastruttura, ma stare sulle nuvole e passare sopra le teste, non attraverso cambiando almeno opinioni o modi di pensare.
25.Non c’è soluzione al pianeta in sala operatoria se non con la guerra di classe, perché ricordiamo che la classe è la parte per il tutto e se questa sineddoche che sempre è stato il principio di ogni rivoluzione è valsa per il lavoro, a maggior ragione vale per l’Antropocene, il Capitalocene, lo Chthulucene o come cazzo volete chiamare l’epoca in cui tutto l’esistente è la realizzazione dei rapporti di produzione (anche quelli in cui non si fa un cazzo e non si è sul mercato del lavoro sia chiaro!).
26.Questo catastrofismo piagnone che tifa spesso incoerentemente estinzione come se l’homo sapiens e tutte le sue estensioni tech e hi-tech non fossero parte dell’esistente non solo è poco efficace, ma è dunque un prodotto del precariato ed un clima che si generalizza soprattutto nella metropoli inesistente che non salverà certo il pianeta.
27.Quanto a chi vorrebbe accelerare si facciano avanti e portino tutte le condizioni esistenti al loro pessimo grado, come se questo fosse un obbiettivo rivoluzionario, come se il capitale fosse d’ostacolo a se stesso e null’altro. Bravi avete letto i Grundrisse! Certo che è d’ostacolo a sé stesso, ma l’esperienza dei compagni che fanno la guerra di classe nello spazio urbano da sempre sanno qualcosa di più di chi si limita scrivere o a redigere manifesti.
28.Dai tempi di Marx la guerra di classe ci insegna che una spinta ci vuole quando il capitale si troverà in ginocchio e quando si troverà in ginocchio gli accelerazionisti non sapranno fare altro che sbattere la testa a tutta velocità contro un muro di lettere nero su bianco e daranno il tempo al capitale per permettergli di rialzarsi.
29.Per dire ancora sull’esoterismo dilagante, esso non è un riflusso o una fuga dalla realtà, esso è la realtà delle separazioni tra noi che non sono dovute a paranoie, bipolarismi, schizofrenie, tossicomanie o comunque a traumi psicanalitici del cazzo o a capricci esistenzialisti ampiamente superati da tutti, ma sono la realtà della frammentazione contrattuale del lavoro che non ci permette di andare oltre un certo livello di vera comunanza, perché poi oltre all’aiuto reciproco che ci può effettivamente essere è una situazione che ci disperde e ci immette su percorsi singolari. Non è dal lavoro che partirà la prossima rivolta e festa continua dove ritrovare comunanza, ma dalla ricomposizione del territorio.
30.Quanto a chi vuole fare la guerra di classe attraverso il femminismo e il movimento lgbtqi+, noi ci chiediamo cosa si aspetta a ripristinare il separatismo? Certo il separatismo di oggi sarebbe più complesso da pensare perché non dovrebbe essere basato su prerogative biologiche ma de/generi. E’ il momento giusto perché molti maschi etero froci o semplicemente dolci che sono dialoganti, lo sono solo a parole, sono solo dei dialoganti profittatori in cerca di figa, meglio essere espliciti.
31.L’auto-consapevolezza di tutti coloro che sentono al femminile ne trarrebbe un beneficio immenso e in fondo ai maschi etero non fregherebbe un cazzo. È presto detto perché: il patriarcato permette a un maschio etero di sentirsi a proprio agio col proprio corpo, ciò non significa che non dovrebbero anche i maschi etero riunirsi per discutere su sé stessi, perché questo diminuirebbe sicuramente la nostra portata passivo-aggressiva e violenta verso tutto l’universo femminile e non etero.
32.L’unico aspetto che ci sentiamo di poter criticare è l’eccesiva cultura dell’identità sessuale che sta colpendo questi movimenti. Sotto la moltiplicazione che continua ad aumentare delle identità sessuali categorizzate non c’è la critica all’identità sessuale come molti pensano, ma proprio il contrario: un disperato bisogno di individuarsi e trovare la propria identità. L’identità lasciamola agli identitari, ovvero i fasci del terzo millennio e teniamoci tutte le libertà sessuali che vogliamo.
33.Per scherzo alle volte ci diciamo che non vi è rivolta non perché non ci sia rabbia che cova sotto la calma apparente ma perché ormai tutti hanno imparato a fottere picchiandosi con regole e consenso e la rabbia viene incanalata con questo tipo di sfogo. Ma ne abbiamo un po’ le palle piene del Kinky e del Bdsm senza politica. Chi lotta “contro il Potere, la Tortura, il Male nel mondo” e poi li pratica in privato senza essere capace di un minimo ragionamento a propria giustificazione, senza essere capace di spiegare perché mai in privato dovrebbero essere considerati addirittura antagonisti e rivoluzionari non è considerabile un compagno o una compagna.
34.Se si vuole fottere così e davvero lo fanno tutti, anche i ventenni, occorre rinnovare il ragionamento a condizioni politiche totalmente cambiate. I vecchi trattatelli sul bdsm antagonista oggi fanno ridere se la rabbia che cova non si riversa nelle strade. Se nessuno sarà in grado di portare argomentazioni nuove riteniamo vada alleggerita la portata politica delle pratiche Kinky e Bdsm perché la situazione generale di questo modo di fottere è tornato ad essere miserabile e di poco valore politico.
35.Abbiamo vinto sempre. Abbiamo perso tutto. La paura e la contenzione degli Anni Ottanta e la sentenza di eterno presente dell’Ottantanove furono rovesciate immediatamente nella festa dei primi spazi liberati e delle università occupate: quella festa in tre decenni è diventata permanente fino a diventare rito della vita metropolitana, una celebrazione esorcistica dell’eccedenza tutti i fine settimana. Un fine settimana che inizia ogni lunedì nella forma di vita ubiqua della precarietà.
36.Gli spazi dell’autogestione, dell’autoproduzione, dell’autonomia mutante si sono moltiplicati, hanno covato sfide decisive agli immaginari mediatizzati e sabotato di continuo le continue produzioni di paura, uno stato di guerra dopo l’altro. Fino a residuare, come stelle fredde dopo l’espulsione di tutta l’energia, in clubbini di afterini esclusive portati nelle periferie dalle stesse ristrette comunità occupanti. Oppure, specularmente, fino ad abbandonare del tutto il terreno legalmente e commercialmente alienato dell’eccessivo che ha agglutinato l’eccedente: e rifluire in strutture di sussidiarietà, nuovi circoli Arci di buone pratiche disperse nel mare magnum della privatizzazione di ogni sociale.
37.I centri sociali come templi del degrado, contraltare del decoro ingiunto, esistono solo nella narrativa dell’apparato securitario, come feticci necessari consegnati dall’archivistica poliziesca. La gioventù della metropoli deflagrata non swagga degrado nei nostri spazi, che al massimo attraversa nelle resse alle file per l’ingresso a sottoscrizione precisamente come davanti a ogni locale, ma ogni giorno e ogni notte in ciascun territorio della fagocitazione e dell’espulsione urbana.
38.È un popolo del sottosuolo quando non c’è più alcun sottosuolo e tutto si rivela e si mimetizza sulla stessa superficie: e dunque non c’è alcuna ragione di pensare che invece abbia un senso una catacomba o una qualsiasi boite alternativa e a buon mercato. Il problema resta quello indicato da questa gioventù che evade ogni luogo presuntamente definito fuori dalla mappa della dissipazione sociale produttiva e che invece si addensa ad ogni piega territoriale del bordo continuo della guerra di classe: vi si addensa e vi fermenta in modo apparentemente vano finché la guerra resta condotta unilateralmente dal nemico. Questo resta il problema: e non ha alcuna soluzione senza che lo si affronti.
39.Eppure. Luoghi e momenti di un cammino sovversivo, autogestionale e autonomo esistono e persistono. Dappertutto, dentro e contro quegli stessi spazi, come una eccedenza viva generata da quella sclerotizzata: continuamente dislocandosi nella pretesa di una vita in comune, che alligna fin nei muri e nell’archeologia politica delle esperienze autogestionarie, così come nella ricerca dell’incontro con quanto di questo comune si dà come latenza inafferrabile lì fuori.
40.Nel riaprirsi un proprio spazio nelle contraddizioni dei territori: come quando tutt’intorno, in margine alla guerra di classe, tra securizzazione di stato e normalità mafiosa del governo economico dei territori infuria la messa in scena di una guerriglia ostile, e ci si ritrova risorsa di resistenza per chi non vedeva che una reliquia. Non è dunque questione di formulare una retorica del che fare come se nulla si facesse: la questione è cosa fare di quanto si fa e come farlo. La questione è politica.
41.Occorre che l’uno si faccia due: e all’occorrenza molto di più. Gli spazi sociali che furono i Soviet della metropoli stanno oggi ai Soviet a venire come la metropoli stessa allo spazio urbano diffuso: ombre passate di un futuro che va strappato. Serve sapere distinguere le ombre da quello che ha corpo, per cospirare nell’ombra: e cercare e riconoscere chi, in mezzo all’inferno della fuffa, non è fuffa, e farlo durare, e dargli spazio.
42.Abbiamo vinto tutto. Abbiamo perso sempre. Per tre decenni abbiamo cospirato per coltivare memoria resistente del trentennio precedente: in tre decenni si sono dissolti i partiti della prima repubblica e si sono sfracellati i gattopardi della seconda. A partire dalla sinistra dei non-morti con la quale in tanta parte abbiamo a lungo sostato, flirtando in illusioni o marcando differenze: totalmente scarnificata, ne resta il vuoto nel quale specchiare il ritardo a riconoscere che i soli vivi eravamo noi.
43.Sotto il fuoco d’interdizione dei fantasmi di quel vuoto per decenni abbiamo reclamato reddito tra mille conflitti interni interpretando il conflitto precario: l’algoritmo fantasma che ha colmato e governato la sincope della post-socialdemocrazia ha fatto il reddito come forma di legge disciplinatrice della vita subordinata in assenza di lavoro formale, a immagine e somiglianza dell’economia algoritmica del controllo, e ora attraversiamo un deserto.
44.Il precariato ha cessato di esistere o forse non è mai esistito: il presente è la totalità del nostro tempo di vita messa a valore, oltre il lavoro ma sotto il comando dello sfruttamento permanente.
45.Bisogna affrontare questo presente e finirla con la lagna della crisi: perché nemmeno il comando si serve più del suo spauracchio e perché non c’è da difendere alcun prima che andasse altrove, a meno di non finire a mitizzare la lira e i piani Fanfani e ritrovarsi rossobruni e contenti di Bagnai.
46.Ha qualche significato che certe derive spopolino proprio tra quanti dieci anni fa si univano contro la crisi o per darle “alternativa” sotto una fantomatica egida politico-sindacale che ancora una volta ha condannato alla vendetta di stato chi il presente invece voleva riprenderselo, sia pure solo per una stagione, una giornata o magari un istante d’intensità: ma questo è affare di chi altri presumeva e presume ancora di potere convincere che ormai autonomia faccia davvero rima con sua zia - che peraltro nemmeno pesa cinquecento chili ed è inutile anche calata dall’alto, si accontenta di briciole.
47.Non deve essere un caso che alla fine dei conti la sola realtà in movimento qui, ora, si compone di una costellazione che risuona con le deflagrazioni in corso in tutto il pianeta. Un territorio insorto del quale una grande opera inutile da un quarto di secolo non riesce a venire a capo e venire a capo del quale resta il solo scopo d’imposizione dell’opera. Una lunga eco che continua a moltiplicarsi in puntuali resistenze alla predazione di territori costantemente al di fuori dalla pretesa cartografia delle metropoli.
48.Una mobilitazione femminista de-genere che deborda gli argini della rappresentazione di comodo coltivata per lustri dalla rappresentanza democratica e dalla femminilizzazione economica e anzi, al netto di ogni parlamentino e ogni intellighenzia, attinge la sua energia proprio e solo dal debordarli. Un ribollire di conflitti che corrono lungo le filiere produttive del territorio da un hub a un altro della grande distribuzione e lungo tutta la composizione migrante del suo salariato. I focolai interni di un incendio alle porte del territorio virtuale del privilegio che nei lager come nei campi, come nei distretti dell’esternalizzazione internalizzata, le accelerazioni fasciste salviniane sul sistema di apertheid istituzionale europea hanno solo intensificato.
49.E, al cuore della metropoli agonizzante, la resistenza della maggiore anzi della sola massiva riappropriazione di reddito, o sottrazione alla predazione, esercitata in questi anni dalle occupazioni abitative nelle pieghe fattesi piaghe del solo effettivo compromesso socialdemocratico realizzato in questo paese ossia quello tra indebitamento sociale e diffusione della proprietà immobiliare: resistenza che ancora una volta ha corpo nella composizione migrante dei non garantiti pressati alla espulsione dai ridotti metropolitani.
50.Infine, il fremito ambientalista-anticapitalista della Z Generation che ha attraversato scuole e piazze: certo nella scia di un marketing politico ma ancor più certamente con qualche maggiore possibilità dell’antifascismo ittico-elettorale di tornare a farlo e magari persino sottrarre qualche corpo ai pifferai di Hamelin del greenwashing sponsorizzato dai Jovanotti delle Enel e delle Leonardo-Finmeccanica.
51.La questione è che una costellazione di potenziali di forza ovunque altrove deflagra appunto nel dispiegamento di una forza. Molteplice, non unificata da alcuna avanguardia, proliferante e diffusa, irriducibile a sintesi: vediamo e sappiamo tutte e tutti che in questi termini, dall’Iraq al Libano, dal Sudan all’Algeria, dalla Guinea ad Haiti, dal Cile al Messico, da Quito a Wet’suwet’en, da Hong Kong alla Francia, la questione è ormai posta con grande chiarezza.
52.Mentre qui, ora, le vibrazioni di energia di una simile costellazione risuonano solo nei suoi corpi e nelle nostre teste anelanti, separatamente. Rompere tale separazione e articolare la pratica complessiva nella quale una concatenazione si apra in tendenza storica, praticare forza contro forza ossia quello che serve per combattere la guerra di classe e patriarcale ed ecocida invece di subirla, è il compito per dare luogo anche qui al futuro delle lotte: compito che abbiamo davanti.
53.La questione politica è la questione della forza: e viceversa. Questo lo sapevamo già. Peccato che non sembra. Quando sono i capitali della socializzazione algoritmica ad esercitare sovranità parallela a quella degli stati; quando la sovranità degli stati si esercita nello stato di eccezione permanente che si articola dalle leggi di sicurezza sullo sfondo dello stato di guerra fino alle ordinanze anti-degrado dei sindaci-sceriffi coordinate da legislazioni omogenee; quando la forma di guerra totale ai corpi migranti è amministrata dalla burocrazia di un’agenzia di polizia trasnazionale; quando l’eccezionalità è scandita definitivamente dal rispecchiamento del Nuovo Capitale nello spettro della pandemia globale e una intera regione, un paese, un continente sono posti in quarantena e sigillati militarmente; quando la confessione augustana di Greta sul soffocamento del pianeta come destino economico finisce in pasto alla Dieta dei capitalisti privati e collettivi e ad un futuro delle forme di vita non restano davvero che le insurrezioni contro un estrattivista nazista come Bolsonaro tanto quanto contro il Green New Deal di Blackrock macroniano: a cosa serve continuare a baloccarsi con orizzonti municipalisti che valgono altrettanto quanto quelli dello spazio europeo del diritto al tempo dell’intesa Ue-Erdogan e Eni-Al Sisi?
54.Forse serve a continuare a broccolare spinando Frost brodose, sentendosi in pace nella coscienza del presunto collasso imminente, che francamente auspicheremmo trattandosi di quello del capitalismo ma che disgraziatamente non promette di avvenire prima di avere consumato le risorse della vita sul pianeta: ma allora preferiamo le 66 dei minimarket, almeno sfidiamo qualche ordinanza, non consumiamo plastica e possiamo sempre riciclare il vetro.
55.Per un trentennio la cospirazione controculturale ha pompato pratiche de-generi e anticolonialiste e antispeciste nella morte ninfale della metropoli dai nodi di una rete di sperimentazione e resistenza di forme di diserzione dalla vita fascista: e ora mentre ci si rivolta e si muore nei campi di lavoro e ai picchetti della logistica e nei lager di Libia e nostrani, ora mentre ogni giorno in qualche casa si perpetra un femminicidio e in tutto il mondo, dal Messico all’India all’Iraq alla Polonia, le insorgenze antinormative e antibinarie si oppongono alla reazione in una lotta sanguinosa, ora mentre un ventaglio di lotte si porta globalmente al limite dell’insurrezione sulla soglia di un conflitto decisivo tra la vita stessa e il potere di morte, ora si può davvero pensare che la presenza a questo mondo di tutto quell’afflusso si riduca a un miserabile dolente ematoma che richiederebbe di essere lenito elettoralmente per la via di discorsi da scout benevolenti in qualche piazza-vetrina della partecipazione fictionale a costo zero di militanza?
56.Si badi, nessuna scomunica, nessun rancore: chi vuole vada pure a cacare.
57.Sul versante degli ambiti rivoluzionari dobbiamo farla finita con quanto si annida in noi stessi di un vizio peculiare della cultura nazionale italiana: il gusto del barocco. Il compiacimento nella resa teatrale dello spettacolo della catastrofe storica, la compiacenza esorcistica con un pessimismo niente affatto rivoluzionario ma invece deprimente, la riduzione di un pensiero della immanenza a un carpe diem fondamentalmente assonante con le ingiunzioni ad accettare il presente, la ricerca di estasi nelle rassicurazioni di un primato estetico e onirico: ma soprattutto, come se si fosse sul serio nel secolo delle Inquisizioni, il metodo della dissimulazione che consente di mantenere oscure le idee e le immaginazioni rivendicandoselo pure come scelta intenzionale.
58.Le linee di fuga in una retorica metafisica passata per ascetismo teoretico, tanto ansiose di mostrarsi smart da flirtare con la Wicca o con qualche sublimazione parapoetica della psicomanzia, non ci affascinano manco un poco: ci paiono piuttosto inservibili. E ci perplime cospicuamente un orizzonte filosofico proposto alla scelta insurrezionale che, interpretando nella situazione contingente un certa propensione monacale, depriva il processo rivoluzionario di ogni consistenza temporale e trasla invece il continuum sovversivo in una dimensione estatica di supposta epifania animale dell’umano assumendo quindi come inconsistente ogni divenire storico: preferiamo il precetto di “fissare un’immagine del passato come all’improvviso si presenta al soggetto storico nel momento del pericolo”, che ci sembra il contrario esatto di ogni pensiero dell’origine, a maggior ragione di un qualche comunismo originario, e quella teologia del tempo messianico presa a servizio dal materialismo storico ossia l’opposto di ogni trascendentalismo, nichilista o panteista che voglia essere.
59.La scintilla atroce e universale che dieci anni fa appiccò il primo incendio da Ben Arous nell’agglomerato urbano della Grande Tunisi. Il focolaio algerino che ha risposto un anno fa dalla piccola Kherrata sulla sponda mediterranea della Cabilia. Il precedente sudanese divampato da Atbara, la Città della Ferrovia. Il crepitio iniziale della rivolta libanese dai sobborghi di Beirut, contro il tentativo di tassare le chiamate vocali online e i roghi delle foreste. Le fiamme di Bassora e dei suoi campi petroliferi al principio della rivoluzione in Iraq. I rond-points occupati dai Gilets Gialli prima e ora dalle azioni dello sciopero a oltranza in Francia. Il blocco dei trasporti e della viabilità che ha acceso la rivolta in Ecuador. Il primo assalto di studenti e gioventù precaria alla metropolitana di Santiago che ha deflagrato quella in Cile. Le giornate di salto dei tornelli rimbalzate a New York City. Il sabotaggio delle metropolitane e della rete di videosorveglianza e riconoscimento facciale nelle proteste a Hong Kong. La paralisi della rete di circolazione in Canada nella mobilitazione solidale con la resistenza indigena contro la Coastal GasLink pipeline. La mappa dei segni prende forma.
60.Le forme di vita insorgenti prendono i loro spazi. Insurrezioni, scioperi selvaggi e territoriali, moti femministi e antiautoritari ridisegnano la superficie apparentemente striata dello spazio urbano del globo. Le metropoli della espulsione sono assediate. Questa penisola non è su un altro pianeta. Non vi è una sola ragione per supporre che la Val di Susa o l’hub di Piacenza o il conglomerato di Prato o le plantation dei distretti di San Severo e Piana di Gioia Tauro non convergano prima o poi sul paese. Che i prossimi scioperi dei riders e degli schiavi salariati di Amazon non ne risuonino. Che i cortei studenteschi per il futuro del pianeta non vi si concatenino: e non si facciano sui binari delle metropolitane. Non vi è una sola ragione per escludere che incontrino e sviluppino una teoria pratica all’altezza della guerra di classe. E non vi è una sola ragione per pensare vi sia altro modo in questo paese per spazzare via la minaccia di un futuro ancora più fascista della vita che ci fanno fare - finché dura. Rintracciare i segni nel proprio quartiere, dentro e fuori la propria scuola, il proprio itinerario quotidiano: e cercarli più lontano. Ristabilire le condizioni di un esercizio di forza contro forza. Preparare i Soviet dello spazio urbano diffuso e dell’insurrezione trans-metropolitana.