***TESI SULL’IDENTITÀ VISUALE*** (3/3)

Associazione Psicogeografica Romana e Syke

21. Il cinema abbandona lentamente la fantasmagoria del gioco di ombre e di luci. La macchina da presa introduce la riproduzione in movimento e diviene sì anche uno strumento per documentare, fonte di documenti, ma cosa cambia rispetto a prima dal punto di vista delle classi pericolose? Ovvero delle classi par excellence che rappresentano la sfida all’individuazione del sé, se non il fatto che ora vi sia la possibilità di riprendere il reato in flagranza? Ma il reato in flagranza rappresenta la certezza del momento del gesto e dell’espressione facciale e non ci dice nulla sull'identità di chi ha commesso il reato davvero, la quale dovrebbe per il Leviatano durare una vita intera. Il cinema abbandona il gioco di luci e di ombre perché rimanda ora all’umanità le tecniche del corpo e del sé. Quanta verità trapelava da quei gesti e quelle espressioni facciali eccessive del cinema muto! Béla Balász sostiene che con il cinema l’umanità ritrova la sua vera madrelingua, quella dei gesti e delle espressioni facciali e che queste rendono l’uomo finalmente ancora visibile. Tuttavia, a nostro avviso, quando si passa dal cinema muto a quello sonoro si perde improvvisamente quella visibilità che per un momento aveva fatto sperare di aver raggiunto l’obbiettivo inseguito per millenni. Con il cinema sonoro l’identità visuale torna ad esser falsa per via della presenza del linguaggio. Gli attori sembrano essere di casa nel linguaggio, ma è un linguaggio così terribilmente lontano dalle astuzie con cui esso domina in realtà i parlanti.

22. Il cinema è, per così dire, morto quando incontra Malevič e il suo quadrato nero, quando Debord è riuscito a proiettare in una sala ufficiale il film lettrista “Urla in favore di Sade”. Un film con immagini tutte bianche e tutte nere. Sarà inutile per Klein cambiarne il colore. Il passaggio fondamentale è piuttosto nella miniaturizzazione della macchina da presa che rende possibile la telecamera portatile. Ma ancora: cosa cambia per l’identità visuale? Non cambia nulla per l’individuo se non in un aspetto preciso: il gesto e l’espressione facciale. L’umanità impara attraverso la telecamera a portata di tutti a dominare come mai prima il gesto e l’espressione facciale. E con cinema non è vero forse che in tutto il mondo uomini e donne prendono a imitare gesti, posture, l’abito dei grandi attori, cosa che è possibile e avviene in misura minore tuttora? Ma imitarne il linguaggio no, non si può fare. Imitarne il linguaggio è condannarsi ad essere degli impostori al di sotto delle complessità cui esso obbliga le relazioni umane e cui le relazioni umane obbediscono. Dunque, abbiamo un elemento nuovo che scopriamo come residuo delle nostre tesi: l’identità visuale si manca quando non è nel mondo del linguaggio. Non basta l’immagine in movimento, essa per essere colta va compresa nel momento della parola.

***TESI SULL’IDENTITÀ VISUALE*** (3/3)

Associazione Psicogeografica Romana e Syke

21. Il cinema abbandona lentamente la fantasmagoria del gioco di ombre e di luci. La macchina da presa introduce la riproduzione in movimento e diviene sì anche uno strumento per documentare, fonte di documenti, ma cosa cambia rispetto a prima dal punto di vista delle classi pericolose? Ovvero delle classi par excellence che rappresentano la sfida all’individuazione del sé, se non il fatto che ora vi sia la possibilità di riprendere il reato in flagranza? Ma il reato in flagranza rappresenta la certezza del momento del gesto e dell’espressione facciale e non ci dice nulla sull’identità di chi ha commesso il reato davvero, la quale dovrebbe per il Leviatano durare una vita intera. Il cinema abbandona il gioco di luci e di ombre perché rimanda ora all’umanità le tecniche del corpo e del sé. Quanta verità trapelava da quei gesti e quelle espressioni facciali eccessive del cinema muto! Béla Balász sostiene che con il cinema l’umanità ritrova la sua vera madrelingua, quella dei gesti e delle espressioni facciali e che queste rendono l’uomo finalmente ancora visibile. Tuttavia, a nostro avviso, quando si passa dal cinema muto a quello sonoro si perde improvvisamente quella visibilità che per un momento aveva fatto sperare di aver raggiunto l’obbiettivo inseguito per millenni. Con il cinema sonoro l’identità visuale torna ad esser falsa per via della presenza del linguaggio. Gli attori sembrano essere di casa nel linguaggio, ma è un linguaggio così terribilmente lontano dalle astuzie con cui esso domina in realtà i parlanti.

22. Il cinema è, per così dire, morto quando incontra Malevič e il suo quadrato nero, quando Debord è riuscito a proiettare in una sala ufficiale il film lettrista “Urla in favore di Sade”. Un film con immagini tutte bianche e tutte nere. Sarà inutile per Klein cambiarne il colore. Il passaggio fondamentale è piuttosto nella miniaturizzazione della macchina da presa che rende possibile la telecamera portatile. Ma ancora: cosa cambia per l’identità visuale? Non cambia nulla per l’individuo se non in un aspetto preciso: il gesto e l’espressione facciale. L’umanità impara attraverso la telecamera a portata di tutti a dominare come mai prima il gesto e l’espressione facciale. E con cinema non è vero forse che in tutto il mondo uomini e donne prendono a imitare gesti, posture, l’abito dei grandi attori, cosa che è possibile e avviene in misura minore tuttora? Ma imitarne il linguaggio no, non si può fare. Imitarne il linguaggio è condannarsi ad essere degli impostori al di sotto delle complessità cui esso obbliga le relazioni umane e cui le relazioni umane obbediscono. Dunque, abbiamo un elemento nuovo che scopriamo come residuo delle nostre tesi: l’identità visuale si manca quando non è nel mondo del linguaggio. Non basta l’immagine in movimento, essa per essere colta va compresa nel momento della parola.

23. Ma perché mai dovrei cogliere l’identità visuale nel momento della parola? E forse le telecamere portatili a disposizione di tutti non restituiscono proprio l’immagine in movimento e la parola nel momento del vero? Sì e no. Sì perché la parola è riprodotta nel momento della vita quotidiana ed è afferrabile anche quando si è ignari di essere ripresi. Per questa ragione la telecamera è divenuta il dispositivo di controllo per eccellenza dello spazio pubblico ed è sempre più invasiva, penetrando sempre più a fondo, ovunque, la vita di ciascuno, fin dentro il proprio spazio privato con le web cam. Tuttavia no. Chi si lamenta delle telecamere poste in ogni luogo per ottenere un’immagine sinottica dello spazio pubblico e privato non comprende che esse una volta divenute per dirla con Heinz von Foerster sistemi che osservano continuamente producono un cambiamento di stato epocale nel sentire del sé. In un primo momento la società del controllo o meglio il Verwaltete Welt ottiene un vantaggio per la sorpresa con cui si presenta e sembra proprio essere in grado di individuare e produrre identità visuale. Tuttavia, il sentire di sé si evolve e finisce per retroagire sulla coscienza del sé, la società del controllo addomestica definitivamente sì corpi e psiche, ma questi si evolvono a tal punto, in questo ambiente immersivo, da muoversi ormai come pesci nell’acqua e da continuare a sfuggire al Leviatano.

24. Chi lamenta oggi telecamere fisse dappertutto dovrebbe forse chiedersi perché il Leviatano smania, si contorce, continua a cercare di afferrare l’identità visuale degli individui, ora che tutti gli individui sono come ha sostenuto Agamben “potenzialmente” pericolosi, appartengono, cioè, tutti diagonalmente in qualche modo alle classi pericolose. Chi lamenta telecamere dappertutto si dovrebbe domandare se non vi sia qualche sistema di osservazione più raffinato che non la società del controllo o il Verwaltete Welt. Anche qui, per quanto si possa pensare che il cellulare provenga genealogicamente dal telefono fisso c’è un salto piuttosto che ci indica che esso sia piuttosto implicato con il primo Minitel in Francia e il Videotel in Italia. Il cellulare con videocamera e microfono aumenta la potenza del sistema di osservazione e auscultazione basato sulle camere fisse e lo trasforma in un immenso sistema di osservazione flessibile e in continuo movimento. Quindi a che pro indicare le camere fisse come sistema di controllo quando tale sistema te lo porti tutti i giorni con te e tu sei l’unico responsabile reale del controllo e ti mobiliti volontariamente e gratuitamente per la vittoria del Leviatano? Tuttavia tale sistema di osservazione e auscultazione flessibile e in continuo movimento non ha soddisfatto del tutto la fame di identità visuali della bestia oscura che si nasconde nel ventre della vita associata. Analizziamone le ragioni.

25.Il Leviatano scopre che la stessa parola di cui l’immagine visuale sembra dover aver bisogno gli sfugge e non gli appartiene. Che il linguaggio stia accanto a questo mostro come un dispositivo che lo ha sempre preceduto e che continui a precorrerlo, che si disperda ovunque senza alcuna possibilità di essere dominato e che anzi lui stesso in quanto prodotto della vita associata ne sia dominato come tutti i parlanti è oggi questione accertata. Dunque non gli resta che insistere sull’afferrabilità dell’identità visuale: l’auscultazione e la presa continua dell’immagine totale sinottica della popolazione non gli basta, tale mole di informazioni va gestita. Occorre una statistica oltre la statistica. L’intelligenza artificiale si presta a gestire tale mole di informazioni per conto del Leviatano. Ma tutta questa mole di informazioni sulla popolazione necessita il suo sistema di individuazione del sé a un livello dialettico superiore. Si tratta del riconoscimento facciale. Esso è gestito da IA e in quanto tale è destinato proprio per via della sua autonomizzazione sempre più evidente dal Leviatano non a sfuggire stavolta, ma di appartenere alla IA soltanto, a questa nuova forma di macchina autopoietica che tende a divenire nuova forma-di-vita e tenersi il segreto dell’identità visuale umana per sé e a non rivelarlo mai del tutto al Leviatano.

26. A questo punto il percorso sembra destinare il Leviatano alla sconfitta e a racchiudere il segreto dell’identità visuale degli uomini e delle donne all’interno di una macchina non banale che esso non può gestire davvero. Ma sconfitto il Leviatano, possono finalmente uomini e donne specchiarsi di nuovo in un feticismo senza inganno che rimandi l’immagine del sé? Ci sono stati dei momenti nella storia dell’umanità che hanno permesso l’afferrabilità anche solo per poco tempo dell’identità visuale? Vogliamo credere che questi momenti siano nascosti nelle pieghe della storia dell’arte, che non tutte le opere rimandino davvero l’identità visuale ma che alcune siano state più di altre vicine ad afferrarla quasi perché ne era giunto il momento epocale. Perché proprio nella storia dell’arte? Il motivo è che come avevamo già affrontato l’unico momento che rimanda il sé libero da inganni è la libera attività estetica e anti-utilitaria e questo avviene anche nel mondo delle merci. Il modo migliore di afferrarla davvero resta sempre il movimento della soppressione dell’arte descritto per la prima volta in modo ingegnoso non tanto da Hegel ma da Erich Unger nel 1920. Tuttavia c’è qualcosa in alcune opere d’arte che riescono ad affrancarsi e a far parte allo stesso tempo del movimento della soppressione dell’arte.

27. Un’opera celebre molto significativa per la storia dell’identità visuale è “L’Autoritratto entro uno specchio convesso” del Parmigianino (1524) realizzata dal pittore riflettendosi su uno specchio convesso da barbiere. L’opera solo apparentemente è un esercizio di maestria. Lasciando da parte le interpretazioni alchemiche o le proprietà magiche dello specchio convesso, questo restituisce la resa dell’identità visuale deformata eppure ci ricorda una delle prime forme di controllo e di individuazione delle classi pericolose negli spazi privati e pubblici. In fact, tale specchio era sì utilizzato all’interno delle botteghe dei barbieri ma era soprattutto detto “specchio dei banchieri” ed era utilizzato per prevenire il furto e per riconoscere il delinquente. Che fosse strumento di controllo e prevenzione lo si può dedurre da un’altra opera: “Il cambiavalute e sua moglie” di Quentin Metsys del 1514. Il Parmigianino non solo pensa l’opera come una sorta di biglietto da visita da portare sempre con sé ma si identifica, questo in pochi l’hanno notato, con la figura inafferrabile del delinquente. Nel “Doppio autoritratto allo specchio” di Johannes Gumpp (1646) siamo in presenza di tre sé, la reale identità visuale di spalle è inafferrabile, l’immagine allo specchio è sfuggente e l’immagine fissata su un supporto è fedele. L’immagine allo specchio è fugace come un gatto, la pittura obbedisce come un cane. Questo quadro, detto anche “triplo ritratto” ci rende visibili la restituzione passeggera e quella impressa del sé, ma quella reale resta non trasparente: di spalle gli uomini e le donne sono come ombre e poterli vedere soltanto riflessi o dipinti rende l’idea di un sublime molto particolare: quello della perdita dell’identità visuale dinnanzi la moltiplicazione numerica del sé.

28. Le “teste di carattere” di Franz Xaver Messerschmidt non sono tanto come sostiene lo psicoanalista e storico dell’arte Ernst Kris smorfie mostruose o buffe realizzate davanti allo specchio dovute a una sindrome schizofrenica. Occorre ascoltare attentamente cosa dicesse lo stesso Messerschmidt di sé stesso e conoscere le teorie psichiatriche del suo tempo per comprendere questo formidabile progetto di cento busti realizzati in una lega di stagno e piombo (1770-1780). Lo scultore si considerava posseduto mesmericamente dal “demone delle proporzioni” invidioso della sua conoscenza artistica dei segreti delle proporzioni anatomiche in un’epoca in cui la malattia mentale era considerata malattia del corpo e non dell’anima. Era una sindrome tipica di un’artista che ha tentato di dominare la propria identità visuale perché in lui essa era così fragile da non potersi incarnare nella potenza del corpo, dell’Altro o dello specchio senza annullarsi. Se non avesse incorporato nelle sue “teste di carattere” il proprio sé non avrebbe resistito all’annullamento e questo processo creativo anti-artistico ci ha restituito uno dei più sorprendenti e temporanei episodi di capacità di tenere in pugno per 69 volte l’identità visuale. Non si conosce molto l’ossessione del vecchio Jacques-Louis David per la fisiognomica che lo portò alle “teste d’espressione”, studi che influenzeranno molti artisti dopo di lui. Tra cui tra tutti forse i più significativi per la loro capacità di fermare per un momento il movimento involontario del volto, non solo dei folli ma anche balzachianamente degli individui della classe borghese, sono Louis-Léopold Boilly e Honoré Daumier. Si guardi ad esempio a “Trentasei espressioni del viso” (1822) e “Trentasei busti di parlamentari” (1832).

29. Nel libro di Hans Bellmer “Die Puppe” il pittore, scultore e fotografo mostra dieci “tableaux vivants” che espongono dieci bambole che sono l’immagine opposta dell’idea di corpo perfetto propagandato dai nazisti. Bellmer lavora contro le proporzioni anatomiche classiche, disseziona, riorganizza, deforma, annulla il corpo e non per farne risorgere una nuova carne ma per trasformarlo in qualcosa di inanimato eppure con un fortissimo sentire del sé. Qui siamo ancora in presenza del Mago Sabbiolino. In Bellmer il procedimento è rovesciato: la restituzione dell’identità visuale del volto avviene attraverso un travisamento feticistico voluto del corpo che aumenta la resa del sentire del sé e spegne del tutto la coscienza di sé. Bellmer produce letteralmente la donna ideale di Nathanael, il protagonista del Mago Sabbiolino e nel farlo dà corpo per la prima volta a un’identità visuale all’altezza della sua epoca. Un processo concettuale, apparentemente più semplice, è quello adottato da John Baldessari. Egli raccolse per anni fotografie di individui colti in occasioni della vita quotidiana e prese a coprirne il volto con sticker colorati rotondi in modo da risaltarne il corpo e ciò che li circondava. I colori avevano un loro senso: rosso era pericoloso, verde era sicuro, blu era platonico e giallo folle. La sua reale intenzione era di cogliere l’identità visuale per sottrazione, cancellandola e codificandola concettualmente. A questo modo è riuscito a realizzare simbolicamente il sogno del Leviatano: l’individuazione attraverso codici securitari e a dimostrare che essa è in realtà una pratica impossibile perché funziona esattamente al contrario di una individuazione, in quanto processo di de-individualizzazione.

30. Vogliamo, infine, citare due artisti che hanno diversamente affrontato la dinamica dello specchio con la consapevolezza dei nostri tempi sull’impossibilità di afferrare l’identità visuale del tutto. Uno è Michelangelo Pistoletto con i suoi quadri specchianti, in particolar modo le prime opere germinali che hanno portato a tali quadri come “L’uomo grigio di schiena”, nel quale un uomo di spalle si potrebbe dire e vogliamo credere si specchi innanzi a una pittura astratta. E Salvatore Travascio che con “Oltre confine” permette a due individui di guardarsi l’uno davanti all’altro attentamente attraverso delle fettucce di specchio tese verticalmente fondendosi e creando un’immagine terza, un’identità visuale terza che non rappresenta né l’uno né l’altro. Un’incorporazione del sé non tanto nell’Altro, ma nella dimensione del Gemeinwesen, dell’essere-in-comune. Alla fine di questo breve excursus sull’identità visuale abbiamo tentato di attraversare i momenti decisivi in cui uomini e donne sono stati sul punto di scoprirne il segreto e abbiamo tentato di descrivere come ogni volta essa abbia trovato il modo di sfuggire loro. Azzardiamo un’ipotesi per cui non siamo mai riusciti ad affermare criticamente che l’identità visuale fosse davvero finalmente afferrata una volta per tutte e questa ipotesi è che essa non esista davvero. Non esiste alcun “Io sono io” ma un “io sono realizzato da” o un “io divento”. Come sostenuto da Gilberto Porretano in polemica con Boezio l’identità visuale non riposa mai in sé stessa, l’individuo è in realtà sempre “non-dividuo”, un sentire del sé non condivisibile, un ente non trasferibile ad altro ente che esso sia specchio, supporto materiale o altro “non-dividuo.