***TESI SULL’IDENTITÀ VISUALE*** (2/3)
***TESI SULL’IDENTITÀ VISUALE*** (2/3)
Associazione Psicogeografica Romana e Syke
11. Se lo specchio di ossidiana ha permesso la prima visualizzazione del volto e la possibilità di portarla sempre con sé, il corpo è stato visualmente sempre presso sé stesso, non si è mai mancato. Se la prima coscienza del sé avviene attraverso lo specchio, la prima forma di sentire del sé avviene attraverso il guardarsi il corpo e nel combinare questa esperienza con quella propriocettiva. È intuibile, dunque, che il sentire del sé abbia preceduto la coscienza del sé e che proprio questo sentire sia la potenza generatrice che ha portato fino ad oggi uomini e donne a ricercare la fissazione, l’incorporazione in un supporto visuale l’identità. Perché gli uomini e le donne sono alla ricerca di questa identità visuale mai afferrata del tutto? La risposta è semplice: finché l’identità non è afferrata, è afferrata da tutti coloro con cui avranno relazioni sociali, personali o impersonali. Gli uomini e le donne travolti dal giudizio esteriore non sanno sentire il sé in modalità tanto resistenti da non subire una forma di espropriazione della coscienza, il corpo soltanto non è sufficiente ad evitare di essere sottratti a sé stessi. Devono poi correre a ricomporsi nell’immagine unitaria dello specchio d’acqua.
12. Ora pensiamo per un attimo al sacrificio umano nei rituali. I sacrifici umani, ad esempio delle fanciulle, prima della scoperta dello specchio, avvenivano proprio sottraendo del tutto il sé, spesso con rituali molto violenti, come l’imposizione della verginità o interventi sul loro corpo, la reclusione, regimi di condotte straordinarie, che facessero transitare il sacrificabile verso un limen in cui lo stesso sentire del sé era ridotto a nulla. Coloro che venivano sacrificati erano ormai senza sé, perché il loro stesso corpo era stato abituato nello stato liminale a questa assenza. Come a dire che il sacrificato era già interiormente stato ritualizzato e sacrificato ancor prima del rituale vero e proprio. Tale limen era, quindi, sia una forma di contenimento del corpo spazializzata sia un insieme di forme di intervento violente su di esso. Tutti i rituali hanno un’origine violenta che tenta di ridurre il sentire di sé. Nei rituali di passaggio all’età adulta, nei diversi esempi riportati da Van Gennep il corpo deve essere trattato proprio in tale maniera per far perdere il senso di sé e accedere allo spazio post-liminale. Quindi abbiamo visto che non soltanto il sentire di sé è incerto, ma talmente incerto da poter essere anche, con precise procedure, annullato.
***TESI SULL’IDENTITÀ VISUALE*** (2/3)
Associazione Psicogeografica Romana e Syke
11. Se lo specchio di ossidiana ha permesso la prima visualizzazione del volto e la possibilità di portarla sempre con sé, il corpo è stato visualmente sempre presso sé stesso, non si è mai mancato. Se la prima coscienza del sé avviene attraverso lo specchio, la prima forma di sentire del sé avviene attraverso il guardarsi il corpo e nel combinare questa esperienza con quella propriocettiva. È intuibile, dunque, che il sentire del sé abbia preceduto la coscienza del sé e che proprio questo sentire sia la potenza generatrice che ha portato fino ad oggi uomini e donne a ricercare la fissazione, l’incorporazione in un supporto visuale l’identità. Perché gli uomini e le donne sono alla ricerca di questa identità visuale mai afferrata del tutto? La risposta è semplice: finché l’identità non è afferrata, è afferrata da tutti coloro con cui avranno relazioni sociali, personali o impersonali. Gli uomini e le donne travolti dal giudizio esteriore non sanno sentire il sé in modalità tanto resistenti da non subire una forma di espropriazione della coscienza, il corpo soltanto non è sufficiente ad evitare di essere sottratti a sé stessi. Devono poi correre a ricomporsi nell’immagine unitaria dello specchio d’acqua.
12. Ora pensiamo per un attimo al sacrificio umano nei rituali. I sacrifici umani, ad esempio delle fanciulle, prima della scoperta dello specchio, avvenivano proprio sottraendo del tutto il sé, spesso con rituali molto violenti, come l’imposizione della verginità o interventi sul loro corpo, la reclusione, regimi di condotte straordinarie, che facessero transitare il sacrificabile verso un limen in cui lo stesso sentire del sé era ridotto a nulla. Coloro che venivano sacrificati erano ormai senza sé, perché il loro stesso corpo era stato abituato nello stato liminale a questa assenza. Come a dire che il sacrificato era già interiormente stato ritualizzato e sacrificato ancor prima del rituale vero e proprio. Tale limen era, quindi, sia una forma di contenimento del corpo spazializzata sia un insieme di forme di intervento violente su di esso. Tutti i rituali hanno un’origine violenta che tenta di ridurre il sentire di sé. Nei rituali di passaggio all’età adulta, nei diversi esempi riportati da Van Gennep il corpo deve essere trattato proprio in tale maniera per far perdere il senso di sé e accedere allo spazio post-liminale. Quindi abbiamo visto che non soltanto il sentire di sé è incerto, ma talmente incerto da poter essere anche, con precise procedure, annullato.
13. La ostinata e pertinace ricerca dell’identità visuale mai del tutto afferrata di uomini e donne nella storia dell’umanità non va mai separata da questi tre aspetti che ne hanno generato la volontà: 1) prima di elaborare una coscienza di sé vera e propria attraverso gli specchi vi era un sentire di sé molto fragile attraverso la consapevolezza del proprio corpo. 2) Tale sentire di sé non era sufficiente a resistere al giudizio esteriore fino alla sua spoliazione per sacrificio rituale. 3) Nel caso vi fosse coscienza di sé essa era il risultato dell’insieme dei giudizi di tutti coloro con cui si avevano relazioni sociali, personali o impersonali. Nel terzo aspetto vi è una sovrapposizione eccessiva tra la coscienza di sé e la coscienza dell’Altro, anzi la prima esiste in virtù della potenza della seconda e questa era la situazione individuante per tutti. Il tuo volto era visto e potevi vedere il volto altrui, l’identità visuale era depositata nel rapporto sociale prima ancora che nell’individuo. L’individuo in questa fase ha identità visuale esclusivamente in quanto esteriorizzata nel rapporto sociale, qui si fissa davvero e non c’è modo di sfuggirvi, tanto che si può dire non vi fosse affatto individuo.
14. Senza alcuna identità visuale che fosse fissata, per quanto nell’istante della riproduzione, con una certa abilità, su un supporto, uomini e donne non potevano che continuare a sottrarsi a vicenda, involontariamente, ma in modo violento quel sentire di sé prodotto dall’esperienza visuale e propriocettiva del corpo. Immaginate ora cosa abbia voluto dire la riunione in spazi tribali ristretti di uomini e donne con un sentire di sé così incerto. Tutto ciò che era visualizzato dal gruppo tribale: il gruppo stesso, la Natura, i prodotti della sua immaginazione non potevano che generare un’autonomizzazione non controllabile dell’identità visuale collettiva. Tale immagine era talmente potente in confronto al fragile sentire di sé di ciascuno che finiva per annientarlo, innalzandosi sopra il gruppo tribale e ripresentandosi innanzi ad esso come una potenza estranea: Totem, Divinità, Spirito, Anima. Da questa sottrazione naturale del sentire di sé e totale spoliazione verso il prodotto visuale del gruppo era inevitabile che in assenza di tecnica nascessero i sistemi magico-religiosi e la vita spirituale ancora non individualizzata. Essere presso sé stessi era impresa pressoché impossibile, sarà il caso allora di comprendere l’esatto momento in cui si generi l’individuo e con esso la possibilità non soltanto di visualizzarsi giusto un attimo in quanto identità individuale ma di riconoscersi in quanto tale.
15. Karl Marx sostiene che gli individui siano prodotti dai rapporti sociali stessi, tuttavia nei rapporti sociali il potenziale individuo è troppo sottratto al sentire di sé per generarsi in quanto individuo a tutti gli effetti. Nel rapporto sociale esiste individuazione, ma non ancora individuo, per cui si può dire che l’individuazione abbia preceduto l’individuo e che anzi tenda a produrlo in quanto sua conditio sine qua non. Fino al Neolitico l’esperienza dello specchio d’acqua era fondamentale per passare dallo stato pre-individuale a quello individuale. Era una sorprendente scoperta che ciascuno otteneva prima o poi dalla vita: essere un’ecceità rispetto alla realtà transindividuale del gruppo tribale. Contrariamente a quanto sostiene Gilbert Simondon, nemmeno il pre-individuale precede il gruppo tribale, questo perché il sentire di sé per mezzo del corpo non è dicibile pre-individuale affatto. Occorre che si produca un’immagine più o meno chiara del proprio volto nella psiche per percepirsi la prima volta come pre-individuo e perché vi siano le condizioni del passaggio all’individuo vero e proprio nel corso della vita.
16. Non l’archetipo in quanto esempio classico della psicoanalisi, ovvero il primo supporto e l’impronta con cui si produceva il conio, le monete, sono il reale principio del sé, a meno che non si voglia credere che siamo fatti ad immagine e somiglianza delle prime monete. La moneta non è stata la prima forma di incorporazione di un’identità visuale del sé e quando sono state realizzate le prime monete rappresentavano non il sé individuale ma un’astrazione ancora che richiamasse l’intero gruppo sociale in cui venivano scambiate. D’altronde le prime monete erano armenti e donne che venivano “trattate” in modo da essere riconoscibili come equivalenti generali tra tribù e la moneta rappresenta la disincarnazione e incorporazione in un supporto delle quantità di ricchezza che valevano. Non dell’immagine di sé narra l’archetipo ma dell’affrancamento di armenti e donne per questioni utilitarie dal dover essere sacrificati in quanto equivalenti generali. Al contrario di quanto si pensi le prima forme di produzione umana non generavano un feticismo che sottraesse dal sé finché non vi era scambio e moneta, incorporata in un supporto o no: la produzione dell’umanità rimandava sì come uno specchio l’immagine del sé ma non al punto da produrre un feticismo che funzionasse da inganno sulla domanda: chi sono io? Dunque, la reale scoperta dell’esistenza di una coscienza di sé avviene attraverso diversi passaggi fino al Neolitico: lo specchio d’acqua produce la possibilità di una coscienza, il prodotto della propria attività produttiva la realizza. Vediamo ora perché tale feticismo si sia rovesciato con il tempo nel suo contrario e perché solo l’oggetto estetico o anti-utilitario conservava tutta la potenza dell’immagine del sé.
17. Il prodotto dell’attività umana ha potuto funzionare da specchio del sé senza alcun inganno finché era fenomeno isolato e, per così dire, sparpagliato. Finché non ha preso a rimandare l’immagine del lavoro combinato e astratto della schiavitù all’interno di un vasto gruppo sociale. Fintantoché esso è specchio della libera attività umana produttiva esso rimanda l’immagine di tale attività e con essa realizza la coscienza di sé del produttore. Quando tale attività si fa non solo necessaria ma anche imposta dispoticamente allora il prodotto dell’attività umana rimanda l’immagine di tale dispotismo e delle condizioni sotto le quali essa è costretta ad adoperarsi. Qui vi è un ribaltamento storico fondamentale: laddove il prodotto dell’attività umana rimandava all’immagine cosciente di sé fissandosi e incorporandosi nei manufatti ora rimandava all’immagine senza volto dello schiavo, per cui ciascuno è sostituibile con chiunque altro e la coscienza di sé superflua. Solo nella libera attività produttiva estetica e anti-utilitaria si conserva il momento in cui il manufatto rimanda un’immagine al produttore che realizza la sua coscienza. Nessuna illusione tuttavia, raggiunta la coscienza del sé, inventati gli specchi e raggiunta l’abilità necessaria alla riproduzione dell’immagine dell’individuo che permettono di visualizzarsi ogni volta che lo si desideri, dal ritratto al dagherrotipo, esplicitato il presupposto per cui qualsiasi manufatto può realizzare o espropriare la coscienza del suo produttore, non si è ancora catturata davvero l’identità visuale.
18. Abbiamo fin qui visto che nessuna visualizzazione del sé, fissa e incorporata in un supporto, ha potuto afferrare l’identità, abbiamo visto che neanche l’esperienza del corpo permette di aggirare la sottrazione del sé da parte del proprio gruppo sociale e quindi che essa non offre alcuna garanzia di produrre identità, abbiamo visto che le poche possibilità di coglierla erano nel prodotto della propria attività produttiva e che vi sia stato un ribaltamento tale da annullarla e tale situazione, va detto, perdura fino ai nostri giorni. Abbiamo visto anche che le marchiature e le violenze sui corpi sono un tentativo di imporre identità, ma anche in questo caso essa resta sfuggente. Tutta la storia dell’individuazione delle classi pericolose sta a dimostrare quanto sia stato difficile se non impossibile generare identità visuale individuale. Abbiamo visto che solo la combinazione del contenimento del corpo con la sua fissazione visuale su un supporto abbia per la prima volta rallentato il divenire e imposto una qualche forma di identità, a costo di possedere tuttavia per un lungo periodo o per sempre l’individuo. Ora sarà il caso di affrontare il dilemma se il cinema abbia risolto la questione dell’identità visuale o se sia intervenuta nel nostro tempo un’arma definitiva – e non facciamo riferimento alle videocamere - a favore del Leviatano.
19. Paradossalmente, per quanto si possa pensare, il cinema non è figlio della fotografia, ma del gioco delle ombre. Eccoci dunque davanti a qualcosa di nuovo: il doppio. Se lo specchio d’acqua era la prima visualizzazione del volto e preludio alla coscienza di sé, l’ombra non è tanto la visualizzazione del corpo e quindi generatrice di coscienza di sé, ma generatrice del doppio pre-individuale. Inseparabile dal corpo, sempre sotto la possibilità dello sguardo, è come la coda del cane che non si lascia mordere e fugge via ad ogni tentativo di afferrarla, così come tutte le ombre. Giordano Bruno sosteneva che l’ombra non è né tenebre né luce e che nulla vi è contrario. In fact, non esiste qualcosa che sia il contrario dell’ombra, essendo il contrario della luce le tenebre, l’ombra riposa in sé, è un prodotto dei corpi e dei solidi e gioca con la luce del sole o del fuoco di notte invece che opporvisi. Il primo progetto ingegneristico di lanterna magica che genealogicamente è sul percorso che porterà al cinema appartiene a Giovanni Fontana all’inizio del XV secolo, il disegno di una lanterna magica che proietta un diavolo.Tuttavia un’ironia dei nostri tempi vuole che il gesuita Athanasius Kircher cui è attribuita la sua prima realizzazione sia lo stesso uomo d’ingegno che ha scoperto la dinamica dell’infezione microbiologica. Guardare nell’ombra, i gesuiti lo sapevano, è guardare oltre le sensazioni, non fidarsi mai di esse, andare oltre le apparenze. Cosa vi è nell’apparenza? Un doppio, non certo l’identità, vi è la sua ombra sfuggente e ancora una volta l’identità appare chimera.
20. L’invenzione del cinema come spesso accade avviene durante una corsa per chi bruciasse nel tempo l’avversario, Louis Aimé Augustin Le Prince o i fratelli Lumière hanno utilizzato tra gli altri l’invenzione fotografica, ma quanta banalità nel pensare che vi sia una sequenza di avvenimenti che porti dall’immagine fissa a quella in movimento. L’immagine in movimento non è un prodotto che appartiene alla genealogia che parte dallo specchio d’acqua, qui Narciso e Dorian Gray non c’entrano più nulla, qui è il gioco fantasmagorico delle ombre proveniente dal sole o dalle fiamme del fuoco la notte che si può comprendere la reale genealogia del cinema. Qui è il sosia, lo spettro, l’androide di cui si teme la malignità che manda in confusione la coscienza di sé scindendola in due. Il Mago Sabbiolino è il suo racconto. Colui che scinde in due si dice sia diabolico, come tutti i doppiogiochismi, eppure anche tutta la teoria analitica occidentale parte da questo presupposto: scindere l’unità in due, dall’ermafrodita originario, simbolo non solo di una sessualità originaria, ma anche della prima forma di conoscenza basata su sensazioni indifferenziate e non razionalizzate. Ma il doppio non è l’identità. Un colpo di scena e un ribaltamento di prospettiva ci rendono evidente che il Doppelgänger è soltanto il corpo di cui essa è l’ombra sfuggente. Sarà ora il caso di attraversare il percorso che porta direttamente al riconoscimento facciale, l’ultima fase del tentativo dell’umanità di chiudere questa contesa con l’inafferrabile.