***TESI SULL’IDENTITÀ VISUALE*** (1/3)

Associazione Psicogeografica Romana e Syke.

 

1. Fino al Neolitico, la prima forma di identità visuale in cui è potuto avvenire il riconoscimento del sé è stato in realtà il momento stesso della scoperta del divenire della propria immagine. La prima forma di superficie è stato lo specchio d’acqua. L’identità visuale si disvela nello stesso momento in cui si disvela l’attimo in cui essa cessa di essere tale. Difatti, nello stesso giorno, il giorno dopo, una settimana dopo, un anno dopo, una vita dopo, l’immagine visuale non restituisce l’identità ma il cambiamento all’interno di quell’invarianza inafferrabile che doveva essere allora. L’identità è dunque una scoperta sorprendente che si afferra soltanto per un momento, il tempo di scoprirsi ancora differenti.

2. Con l’invenzione dello specchio di ossidiana nel 6000 a.C., la condizione non cambia, l’identità resta sfuggente, tuttavia essa è ormai incorporabile in qualsiasi momento in un supporto che si può anche portare con sé. Tale incorporazione sempre possibile dell’identità visuale in un supporto riflettente permetterà, per così dire, di tenere il cambiamento della propria immagine sempre a disposizione. L’identità e il suo divenire possono ora essere tenuti sotto controllo continuo e in qualche modo gestibili tanto da poter parlare per la prima volta davvero di identità stricto sensu, ma soltanto in virtù del supporto riflettente. Allontanarsi da esso significa far fuggire immediatamente l’identità stessa.

***TESI SULL’IDENTITÀ VISUALE*** (1/3)

Associazione Psicogeografica Romana e Syke.

 

1. Fino al Neolitico, la prima forma di identità visuale in cui è potuto avvenire il riconoscimento del sé è stato in realtà il momento stesso della scoperta del divenire della propria immagine. La prima forma di superficie è stato lo specchio d’acqua. L’identità visuale si disvela nello stesso momento in cui si disvela l’attimo in cui essa cessa di essere tale. Difatti, nello stesso giorno, il giorno dopo, una settimana dopo, un anno dopo, una vita dopo, l’immagine visuale non restituisce l’identità ma il cambiamento all’interno di quell’invarianza inafferrabile che doveva essere allora. L’identità è dunque una scoperta sorprendente che si afferra soltanto per un momento, il tempo di scoprirsi ancora differenti.

2. Con l’invenzione dello specchio di ossidiana nel 6000 a.C., la condizione non cambia, l’identità resta sfuggente, tuttavia essa è ormai incorporabile in qualsiasi momento in un supporto che si può anche portare con sé. Tale incorporazione sempre possibile dell’identità visuale in un supporto riflettente permetterà, per così dire, di tenere il cambiamento della propria immagine sempre a disposizione. L’identità e il suo divenire possono ora essere tenuti sotto controllo continuo e in qualche modo gestibili tanto da poter parlare per la prima volta davvero di identità stricto sensu, ma soltanto in virtù del supporto riflettente. Allontanarsi da esso significa far fuggire immediatamente l’identità stessa.

3. Vogliamo immaginare a partire dal mito di Narciso ed Eco che a un certo punto vi fosse un modo di fissare quell’invarianza tanto fuggevole che era percepita lontanamente come identità. Riteniamo che la trasformazione di Narciso in un fiore non sia altro che la prima metafora fotografica della storia dell’umanità. La volontà di fissare l’immagine rispecchiata nel pozzo avviene attraverso una metamorfosi puramente simbolica, il fiore non rappresenta altro che l’identità visuale di Narciso fissata simbolicamente come una fotografia per sempre e destinata finalmente a perdurare oltre l’effimero dello specchio d’acqua e con esso di tutti gli specchi.

4. Narciso rimanda a un’epoca mitica in cui l’umanità riconosceva la propria identità visuale ancora attraverso specchi non conoscendo se non in forme molto inadeguate l’abilità della riproduzione dei lineamenti del viso. Acquisita una tale abilità il fiore diveniva alla portata di tutti. L’immortalità era potenzialmente per ciascuno senza dover rinunciare, paradossalmente, al proprio essere mortali. Fissare, incorporare, assicurare l’immagine visuale è stato il travagliato percorso della scoperta tarda dell’identità, eppure neanche la riproduzione dei lineamenti del viso avrebbe garantito di afferrarla mai del tutto.

5. Che l’abilità di riprodurre i lineamenti del viso non fosse sufficiente è una condizione dell’umanità che possiamo ritrovare in un classico della letteratura: Dorian Gray nel momento in cui stabilisce l’accordo con il proprio ritratto per assicurarsi bellezza e giovinezza non fa altro che tentare di fissare la sua identità che fugge da lui. L’invecchiamento è la prova che fin dalla prima umanità che si è specchiata nell’acqua nessuno può allontanarsi dalla propria immagine e ritornarvi senza trovarsi trasformato. Dov’è l’identità in questo caso? Se “io non sono più io” a un anno dal ritratto?

6. La volontà di afferrare, eppure, quell’invarianza che una volta vista non si può più smettere di sentire. Questo sentire fatale, scoperto tardivamente, di essere sempre sé stessi nei cambiamenti genera una potenza nell’umanità tale, una rincorsa, forse, a cercare sempre nuove forme di perfezionamento dei modi con cui fissare la propria identità visuale. Dorian Gray è la metafora narrativa di questa volontà di fissare sé stessi in una superficie in cui non sia essa ad essere per sempre ma la propria identità. Si scopre di sentirsi sé stessi soltanto dopo essersi visti, probabilmente non vi sarebbe stata nemmeno psicoanalisi senza visualizzazione estetica del proprio viso.

7. Non è tanto il processo storico che porta a una riproduzione sempre più perfezionata della Natura o della Presenza a condurre alle talbotipie o alle dagherrotipie. Ma questa intenzione ostinata dell’umanità di documentare l’identità visuale in forme sempre più raffinate, di afferrare il sentimento di sé sempre in modo più preciso, quasi che questa precisione potesse in qualche modo fermare il divenire e donare l’immortalità. I primi disegni fotogenici non sono il tentativo di superare il ritratto in accuratezza, rappresentano la pertinacia dell’umanità in questo desiderio di ottenere i segreti dell’identità. Tutta la questione di restituire il positivo dal negativo che ha segnato l’inizio del XIX secolo era una corsa alla visualizzazione finalmente dell’identità: si credeva che attraverso l’inversione del negativo, si sarebbe raggiunto il “rubedo” dell’immagine del sé.

8. Eppure anche con il raggiungimento del primo “positivo unico” dagherrotipico l’identità visuale non permette di cantare vittoria, i passaggi dalle riproduzioni manuali a quelle meccaniche o tecniche lasciano aperta la questione che si offre all’umanità fin dal primo specchio d’acqua. Dalla prima fotografia ufficiale del 1839 sarà possibile la circolazione orizzontale delle identità visuali ma non la realizzazione dell’antico desiderio di patto con la riproduzione stessa. Nel momento stesso in cui l’aura degli oggetti unici si teme possa decadere a causa di questa circolazione delle riproduzioni tecniche si tenta di afferrare quel sentimento identitario di sé, spesso proprio nella forma di un’aura alle spalle dei soggetti fotografati, con trucchi foto-medianici che sembrano un contraccolpo momentaneo dovuto allo choc per non averla mai afferrata davvero.

9. Se da una parte c’è chi prova a fotografare l’invisibile del mondo, aure, ambiance, anime, fantasmi, dall’altra c’è chi teme proprio la fotografia per la stessa ragione: forse la riproduzione tecnica non fermerà il divenire ma potrebbe nel momento in cui fissa meccanicamente l’identità rubare quel sentire più intimo di sé che tante volte è considerato l’anima stessa. Forse non c’è percorso più disperato che quello che riguarda la titanica impresa del Leviatano di far diradare le nebbie che circondano le classi pericolose. Tutta l’evoluzione del mondo delle classi pericolose, dall’argot alla capacità di cambiare il proprio aspetto per camouflage per sfuggire a indagini e spionaggio, è l’aggiramento continuo dei tentativi del Leviatano di individuarle una volta per sempre, di afferrarne l’identità una volta per sempre. Mai come in questo caso, con la reclusione del corpo forse l’umanità scopre il modo più efficace di fermare il divenire e assicurarsi l’identità di un uomo o di una donna davvero.      

10. In fact, questa guerra tra il Leviatano e le classi pericolose prende avvio sul corpo stesso più che sull’identità visuale, risale dal corpo violentato dalle marchiature con le iniziali del reato commesso fino rendere sempre più precisa l’individuazione dell’identità dell’uomo o della donna delinquenti, percorrendo la strada della fissazione kafkiana dell’identità nel corpo si appropria dei mezzi di riproduzione tecnica dell’immagine. Finalmente combinando la violenza identitaria sui corpi, passando dalla marchiatura fino all’antropometria giudiziaria à la Bertillon, con la fissazione tecnica dell’immagine visuale del sé ci si approssima all’obbiettivo. Si pensi all’utilizzo delle gemelle di Ellero prima di una reclusione. Tuttavia il costo di questo obbiettivo è il contenimento del corpo, la sua reclusione, il divenire costretto a rimbalzare follemente tra quattro pareti. Ma non il segreto dell’identità si è afferrato, la scoperta è soltanto quella banale che la violenza costringendo in un campo chiuso di forze il divenire permette di tenerlo sotto osservazione, di penetrare forse anche i suoi pensieri, ma mai di domare quel sentire, quel potere, che ha preceduto anche la prima visualizzazione del sé e che è divenuto il sé stesso par excellence.