**COSA C’È DENTRO LA MACCHINA NON BANALE DI BERNARDO SECCHI?**
IL 17 e il 18 Novembre 2016 si sono tenute le giornate di studio su Bernardo Secchi dal titolo: "UTOPIA AND THE PROJECT FOR THE CITY AND TERRITORY". Noi vi abbiamo partecipato come relatori con un intervento in apertura del Panel A "An Extreme Effort of Imagination", un riferimento efficace alla "Prima Lezione di Urbanistica" dove Secchi afferma: "Pensare che il pensiero utopico sia espressione di un delirante determinismo ambientale per il quale le forme della città possano di per sé generare la società giusta, è profondamente sbagliato anche sul piano dell'analisi testuale. L'esplorazione di un diverso possibile è sempre stata la più potente critica dell'esistente. È per questo che l'utopia, bel lungi dall'essere mossa evasiva, è piuttosto sforzo estremo dell'immaginazione". Siamo stati felici di poter produrre un discorso non convenzionale su Bernardo Secchi, poterlo presentare nella Scuola di Dottorato dello IUAV dove ci ha formato e nel contesto di questo Panel, giacché abbiamo sempre pensato che la "Prima Lezione di Urbanistica" sia una delle più formidabili macchine per la produzione di urbanisti.
La macchina di David Easton era davvero banale?
Bernardo Secchi aveva la stoffa del pensatore che produce idee, interpretazioni, teoria critica che segnano un’epoca e che si prestano ad essere utilizzate vantaggiosamente non solo nel proprio campo disciplinare, ma, per l’ampio respiro che le caratterizza, in ogni altro campo. Il suo approccio al progetto urbano era deciso e concreto, basato su dati, descrizioni, osservazioni, innovazione tecnica, tuttavia ciò che lo contraddistingue maggiormente rispetto ad altri urbanisti della sua generazione era di operare attraverso quella che Von Foerster chiama “macchina non banale”.
In questo testo ci atterremo a ciò che Bernardo Secchi ha scritto negli ultimi venti anni, ma cercheremo di far affiorare gli aspetti meno espliciti del suo pensiero, d’altronde scrivendo della macchina non banale di Secchi non potevamo a nostra volta presentarci con una macchina banale.
Secchi intravede per la prima volta la macchina banale analizzando il saggio di David Easton sui sistemi politici. In realtà negli anni ’50 il saggio di Easton era a sua volta una macchina non banale che applicava per la prima volta la sistemica alle scienze politiche sostenendo che non potessero più trattare esclusivamente le forme di governo ma anche i sistemi sociali, economici e comportamentali. Easton si disfaceva di molti pregiudizi da una posizione deterministica e fu egli stesso nella figura che Secchi chiama della “continuità”, nell’aggiunta all’edizione degli anni ‘60 al libro intitolata “Continuità nell’analisi politica: comportamentalismo e postcomportamentalismo” a evidenziare i limiti riduzionistici della propria teoria. Easton aveva cercato di uscire dall’impasse delle teorie situazionali e dell’equilibrio generale che egli aveva criticato (ma ugualmente utilizzato) per le sue argomentazioni con una “macchina” a immissioni ed emissioni, eppure all’epoca non poteva ancora trattarsi di banalità. Inoltre nell’aggiunta non intendeva più il sistema politico come una “black box” uno-a-uno classica, in quanto non tutte le emissioni erano considerate uguali, occorreva distinguere tra emissioni ed esiti, negli anni ’60 gli era divenuto chiaro che le “decisioni autoritative” (emissioni) andavano distinte dai loro effetti sociali (esiti) e che gli esiti si prestavano ad essere utilizzati non più solo da chi governa ma anche dai gruppi sociali che li contestano (Easton, 1973). Secchi vi ha visto la figura della macchina, una sorta di “macchina motrice” e ha criticato il sistema di Easton utilizzando strumenti concettuali provenienti da Heinz von Foerster.
Von Foerster: macchine banali e macchine non banali
In un meraviglioso capitolo del libro “Sistemi che osservano” von Foerster chiarisce da subito che per macchina va inteso uno strumento concettuale (un’entità astratta che tuttavia è costruita da componenti altrettanto concettuali che funzionano da ingranaggi) (von Foerster, 1987). Una macchina banale “è caratterizzata da una relazione uno-a-uno tra il suo ‘input’ (stimoli, causa) e il suo ‘output’ (risposta, effetto). Questa relazione invariabile costituisce la ‘macchina’. Poiché questa relazione è determinata una volta per tutte, si tratta di un sistema deterministico e poiché l’output osservato una volta per un dato input resterà lo stesso anche in seguito, si tratta di un sistema prevedibile” (von Foerster, 1987: 128). Invece “le macchine non-banali […] sono creature molto diverse. In questo caso la relazione input-output non è invariante, ma viene determinata dall’output che la macchina ha precedentemente fornito. In altre parole, la relazione attuale resta determinata dai passi compiuti in precedenza. Sebbene queste macchine siano anch’esse sistemi deterministici, a fini pratici esse restano del tutto imprevedibili: l’output osservato una volta per un dato input molto probabilmente non resterà lo stesso anche in seguito” (von Foerster, 1989: 128-129). Inoltre: “per cogliere la profonda differenza tra questi due tipi di macchina, può essere utile considerare i rispettivi ‘stati interni’. Mentre al funzionamento interno della macchina banale partecipa sempre un solo stato interno, a rendere così elusiva la macchina non banale è il passaggio da uno stato interno all’altro” (von Foerster, 1989: 129). Secchi scrive che la macchina non banale assomiglia dall’esterno molto a una macchina banale, ma a differenza di questa, a stessi input non produce stessi output. Il suo stato interno è indeterminato e continuamento modificato e questo è il motivo per cui il materiale in entrata è elaborato in modo sempre diverso invece che in modo codificato. Una macchina non banale assomiglia a una macchina banale solo perché è determinata sinteticamente, ma, diversamente da questa, è dipendente dalla storia, indeterminabile analiticamente, imprevedibile (Secchi, 1989).
Bernardo Secchi e la macchina non banale urbanistica
Ora qui non c’interessa la sua indeterminabilità e imprevedibilità, ma la sua dipendenza dalla storia. Cos’è la storia nella macchina non banale di Bernardo Secchi? Di cosa è fatta? Quali sono i suoi ingranaggi? Senz’altro non è solo il racconto degli eventi dell’urbanistica e le gesta degli urbanisti, ma soprattutto il racconto della produzione dell’ingegno che l’umanità ha potuto produrre. Dalla letteratura all’ingegneria, dalla filosofia alla matematica, dalla fisica alla psicanalisi, dalla poesia alla chimica, dalla metodologia antropologica ed empirica e a quella deduttiva. Chi volesse smontare la macchina non banale di Secchi troverebbe autori delle più disparate discipline ed è proprio il puzzle di questi saperi che la rende indeterminabile e imprevedibile. Questa storia è la storia degli strumenti concettuali (componenti concettuali della macchina che è a sua volta uno strumento concettuale composito) di diverse epoche che vengono fatte convergere nel progetto della città contemporanea. Sartre, Foucault, De Certeau, Debord, Il Lord Chandos di Hofmannsthal, Wittgenstein, Henri Lefebvre, René Descartes, Wittfogel, Hirsch, Harrod, Kuhn, Polanyi, Habermas, Bobbio, Putnam, Asor Rosa, Valéry, Barthes, Roth, Manesson Mallet, De Mauro, Magris, Svevo, Bourdieu, Bodei, Guillerme, Calabrese, Fleck, Moretti, Caughilhem, Braque, Crozier, Hirschman, Luhman, Offe, Pizzorno, Rawls, Easton, Elster, von Foerster, Apollinaire, Ballard, Benjamin, Bloch, Braudel, Celine, Deleuze, Gramsci, Halbawachs, Ortega y Gasset, Todorov e moltissimi altri. Vi sono poi ovviamente altri passaggi del progetto e altri utilizzi possibili della macchina non banale. Gli input possono corrispondere come suggerisce Secchi stesso a domande sociali che occorre andare a scovare direttamente nei luoghi, sia nei suoi aspetti fisici che negli usi che ne fanno gli abitanti e che non sono già disponibili all’urbanista come semplici voci di una lista di rivendicazioni. Gli output possono essere non sono solo dettagli che rimandano a una totalità, non solo l’andirivieni da una scala all’altra, ma anche frammenti che rimandano al caso e alla serendipity, inoltre possono essere linguaggio, un linguaggio con cui si mostrano che non è più trasparente, ma ambiguo e pieno di giochi pericolosi ed eterogenei (Secchi, 2000). Riteniamo che il progetto urbanistico sia divenuto una macchina non banale non per volontà di qualche urbanista ma per le trasformazioni stesse dei territori, per gli output che improvvisamente non corrispondevano più ai loro input, con la crescita di post-metropoli e città diffuse. Il progetto urbano si realizza per mezzo di tutte le implicazioni sullo spazio che si possono trarre da quello che esce da una macchina non banale fuori controllo.
Jesi e il rifiuto della macchina
Rispetto a chi rifiuta la macchina tout court come Furio Jesi, Secchi ha un atteggiamento diverso, assumendo la macchina (come tanti altri esempi celebri, in particolare Deleuze e Guattari negli ambiti della psicanalisi e della filosofia) e questo per lo statuto stesso della disciplina urbanistica che è molto differente da quello della storia delle religioni o dell’antropologia culturale. Jesi contrappone il mito genuino al mito tecnicizzato, un mito passato per la macchina mitologica da chi vuole utilizzarlo per fini strumentali ed oppone, quindi, l’autentico, il vissuto, il genuino al macchinico, alla black box (Jesi, 1968). Jesi non ha questo atteggiamento solo nei riguardi della mitopoiesi ma anche nella possibilità di rivivere le esperienze intense di popoli altri, non lo potremmo fare perché queste esperienze sono passate nella modernità attraverso una macchina antropologica (Jesi, 1977). Secchi invece assumendo il macchinico, non resta impigliato nel double bind autentico/inautentico e vaglia al suo interno le sue diverse possibilità
Un esempio di macchina non banale: “Prima lezione di urbanistica”
Qui ci potremmo concentrare un momento sulla costruzione di una macchina non banale particolare perché è alla base della formazione di diverse generazioni di giovani urbanisti, facendo due esempi: il libro “Prima lezione di urbanistica” pubblicato per la prima volta nel 2000 da Laterza. Si tratta di un libro che si può iniziare a leggere in qualsiasi punto e che permette di procedere lungo linee di fuga e faglie che implicano anche saltare le pagine per ricongiungere concetti dispersi che si riconcorrono e si richiamano tra loro, attraverso le diverse prospettive di lettura che presenta la divisione in capitoli. Queste linee di fuga si possono trovare all’interno di un capitolo oppure attraversare tutti i capitoli. Leggere questo libro è come poter guardare dentro la “black box” della sua macchina non banale. All’interno del capitolo “Urbanisti”, una di queste linee di fuga è quella dalla teoria della “morte dell’autore”. Secchi riconosce in un punto che il progetto urbano non è realmente opera di un autore individuabile e seguendo questa faglia risale fino restituire un output non banale, che non fosse la solita vulgata postmoderna sul concetto di autore e la sua fine, superandola. Secchi scrive: “Il progetto della città è stato rappresentato il più delle volte dagli stessi urbanisti come il prodotto di una cultura, di intenzioni e saperi che non potevano essere immediatamente riferiti solo a uno specifico autore, bensì a soggetti collettivi peraltro vagamente identificati” (Secchi, 2000: 34). Questo è l’input postmoderno al quale segue l’output: “Enfatizzare la rimozione dell’autore, o degli autori che con diverse e distinte responsabilità si succedono nella costruzione e realizzazione del progetto della città, rischia di rimuovere e nascondere le differenze tra i loro diversi programmi, vorrei dire, se la parola non fosse tanto poco usuale, tra le poetiche che guidano ciascun progetto; rischia di nascondere cioè il complesso di ragioni che spingono ogni autore a scegliere, nel fare urbanistica, alcune direzioni piuttosto che altre. Riportare d’altra parte in luce l’autore, cioè l’urbanista, non vuol dire necessariamente dire auspicarne l’ipertrofia come in campi assai prossimi a quello dell’urbanistica, mettendo su uno sfondo troppo lontano la società e la cultura di un’epoca, rinunciando alla consapevolezza dei meccanismi nei quali ogni autore è immerso e alla riflessività autocritica degli ultimi decenni del XX secolo” (Secchi, 2000: 39). Secchi nega la posizione precedente e la trattiene allo stesso tempo per portarla a un livello più alto di cognizione, mettendoci a disposizione uno strumento che ci faccia uscire dal double bind autorialità (modernità)/fine dell’autorialità (postmodernità) utile per il momento presente che si è lasciato alle spalle sia le asperità concettuali del moderno che la jouissance concettuale postmoderna. Un’altra linea di fuga è la tensione utopica che l’urbanistica dovrebbe avere verso il futuro, la sua prospettiva di lunga durata, che attraversa tutti i capitoli in numerosi “punti”, come fosse un capitolo diagonale a parte. Non a caso la macchina non banale è uno strumento concettuale profondamente implicato con la capacità di “percepire il futuro” in vista del cambiamento sociale. Von Foerster lo utilizza per sbloccare il seguente assunto: “Se non siamo in grado di percepire, non siamo in grado di percepire il futuro e di conseguenza non sappiamo come agire adesso” (von Foerster, 1987: 118), per lo scienziato austriaco se lo si vuole si può determinare il proprio futuro, ma esclusivamente con mosse non banali, ovvero che non ripetano le mosse utilizzate in passato nelle stesse situazioni, una teoria che si pone coscientemente dalla parte della contestazione dello status quo e dell’utopia concreta.
La banalità necessaria: Han e Vaneigem
Von Foerster tuttavia non nega l’utilità della macchina banale che ci permette una certa continuità nella vita rendendola gestibile, il problema è che le macchina banali sono sempre anche un po’ non banali, ovvero si guastano e allora il loro stato interno cambia e noi non sappiamo il perché. Addirittura il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han dopo aver con molta perizia, intelligenza e sagacia smontato nei suoi libri tante teorie del nostro tempo che sono divenute macchine banali, ovvero che garantiscono la continuità dei saperi senza più sconvolgerli (da Foucault ad Agamben per essere tranchant), dopo aver criticato ferocemente la società neoliberista arriva nel saggio “Psicopolitica” a sostenere come nuova forma di antagonismo se non la banalità, qualcosa di simile: l’idiozia e la stupidità (Han, 2016). E in fondo in “Banalità di base” (uso volutamente la peggiore traduzione esistente per divertimento) Raoul Vaneigam (sic), partendo da assunti simili a quelli di Han, ma considerandosi molto più intelligente, scrive che le banalità di base esposte nel suo libro a proposito della vita quotidiana uno spirito mediocre avrebbe potuto capirle solo al terzo tentativo. Nonostante ciò con Attila Kotányi scrive in “Programma elementare per un’urbanistica unitaria” che: “L’esercizio elementare della teoria dell’urbanistica, unitaria sarà la trascrizione di ogni menzogna teorica dell’urbanistica, capovolta in uno spazio disalienante” (Vaneigam – Kotanyi, 1969: 99). Elementare, banalità di base necessaria.
I fatti sono nemici della verità
Secchi considerava la teoria pura un momento imprescindibile del sapere urbanistico come la ricerca sul campo e il disegno. Egli era un pensatore affabile e coinvolgente eppure la sua era una teoria “negativa”, fortemente critica anche se si presentava come un discorso logico, ragionevole, oltre che affabile. Penso che per spiegare come producesse teoria tenendo insieme e in bilico l’urbanistica tra le pratiche artistiche e le scienze morbide (deboli con problemi duri) e le scienze dure (forti con problemi deboli), per dirla alla von Foerster, si trovi passando attraverso una importante provocazione di Han ne “La società della Trasparenza”: “Anche la teoria è, in senso enfatico, una manifestazione della negatività. È una decisione, che stabilisce che cosa rientra in essa e cosa no. Come narrazione altamente selettiva, segue il sentiero della distinzione. A causa di questa negatività, la teoria è violenta. Essa è «fatta […] per impedire alla cose […] di toccarsi» e per «distinguere di nuovo ciò che è stato confuso” … È un errore ritenere che la massa positiva di dati e di informazioni, oggi in mostruosa crescita, renda superflua la teoria e che il pareggio dei dati sostituisca i modelli. Come negatività, la teoria è stabilita prima dei dati e delle informazioni, prima ancora de modelli. La scienza positiva basata sui dati non è la causa, bensì l’effetto dell’imminente fine della teoria in senso proprio. La teoria non si fa sostituire facilmente dalla scienza positiva. A questa manca la negatività della decisione, che stabilisce fin dall’inizio cosa è o dev’essere” (Han, 2014: 17-18). Per il filosofo sudcoreano che reinterpreta in modo molto originale Hegel, non in modo dissimile da come l’avevano reinterpretato i situazionisti, il negativo è il movimento che permette di aprirsi all’Altro, di rifiutare l’Identitario (o l’Eguale come è definito da Han), di produrre i saperi, di decidere. La teoria di Secchi è solo apparentemente una teoria “aperta” e del “patchwork”, egli, è vero, “faceva toccare le cose”, lo enunciava e lo ripeteva spesso, contrariamente alla definizione di Han, tuttavia, in realtà, egli è stato implicitamente sempre impegnato nel fondare un nuovo statuto del sapere urbanistico per la nuova epoca. Ha sempre cercato l’alleanza con i filosofi, gli scienziati della natura, i geologi, gli ecologi, i botanici, ma non era una mossa opportunistica dalla quale metteva in guardia, quanto il tentativo di trovare i tasselli di un nuovo modo intendere il fare urbanistica. Ha sempre avuto ben chiaro che l’utilizzo dei concetti di altre discipline nel campo urbanistico fosse esclusivamente metaforico, non permetteva alle “cose di confondersi”, il suo obbiettivo era di ritagliare un nuovo campo che trattenesse le radici e che guardasse, concretamente e cioè utopisticamente, al futuro. Egli apre spesso i suoi scritti con una citazione da un romanzo, da una poesia o da un autore che ha segnato profondamente la propria disciplina, ma questo è solo l’input, un input più che un incipit, che nella narrazione esce fuori come un punto archimedico con il quale fare leva per rovesciare le abitudini discorsive degli urbanisti e indirizzare verso un nuovo modo di decidere. Per produrre un nuovo campo per l’urbanistica Secchi si è servito quindi di una negatività necessaria che gli permettesse di rifiutare gli specialismi duri e per non far fondere insieme le discipline che faceva interagire, spesso lontane tra loro, in una congerie indifferenziata, ha utilizzato logica e rigore, “distinguendole di nuovo” dopo averle utilizzate metaforicamente. Anche se poi distingueva le discipline che faceva interagire è stato un pensatore non violento e utopico. Nelle lezioni Secchi forniva degli indizi perché fossero i suoi allievi a fare questa distinzione per tornare allo spazio, e se non lo facevi ti domandava ironicamente: “E lo spazio?”. È stato uno degli ultimi liberi pensatori prima che lo sfruttamento della libertà, per dirla ancora con Han, divenisse un modo per ottenere il massimo rendimento (Han, 2016). Le sue lezioni erano apertura massima alla metafora e invito a un lavoro successivo, rigoroso e logico, di distinzione concettuale, senza il quale gli altri passaggi del progetto urbano che contraddistinguono lui e noi allievi non sarebbe altrettanto originale e fuori da ogni luogo comune. Secchi tuttavia metteva in guardia da due rischi, anche se spesso sembrava alludere che occorresse affrontarli e attraversarli a tutti i costi piuttosto che evitarli. Il primo rischio è che molto probabilmente la macchina non banale come strumento concettuale provvedesse solo metaforicamente al progetto urbano, che producesse in fondo solo utili metafore, nella definizione di von Foerster “un congegno esplicativo che non contiene nozioni causali” (von Foerster, 1987: 235), insomma utili… ma pur sempre metafore senza conseguenze. Ora, per Secchi la metafora era comunque necessaria e ciò che assomigliava di più all’utopia e, quindi, alla “verità”. E così veniamo al secondo rischio correlato con il primo, cioè che l’output corrisponda un po’ alle parole di Don Chisciotte: “I fatti sono nemici della verità”.
Bibliography
Easton D., 1973. Il Sistema politico. Milano: Edizioni di Comunità.
Han B.-C., 2016. Psicopolitica. Roma: Nottetempo.
2014. La società della trasparenza. Roma: Nottetempo.
Jesi F., 1968. Linguaggio e mito. Torino: Einaudi.
1977. La festa. Torino: Rosemberg&Sellier.
Secchi B, 1984. Il racconto urbanistico. La politica della casa e del territorio in Italia. Torino: Einaudi.
1989. Un progetto per l’urbanistica. Torino: Einaudi.
2000. Prima Lezione di Urbanistica. Roma-Bari: Laterza.
2005. La città del ventesimo secolo. Roma-Bari: Laterza.
2013. La città dei ricchi e la città dei poveri. Roma-Bari: Laterza.
Vaneigam R. [sic], 1969. Banalità di base. Ponte Sesto di Rozzano: De Donato.
Von Foerster H., 1987. Sistemi che osservano. Roma: Astrolabio.