*l'unico cerchio chiuso che mi piace è quello spezzato dalla saetta degli squatters*
In questo post presentiamo un'intervista del 15 dicembre 2015 di Valentina Bernabei a Luther Blissett che non si trova più nel suo blog su D di Repubblica. Le questioni affrontate da Luther Blissett restituiscono lo spirito del ventennale che si tenne alla fine del 2015, quello del suo ritorno alle origini. Il personaggio collettivo spiazza la blogger facendo piazza pulita di molti luoghi comuni sui centri sociali, sull'uso dei multiple name, sul suo rapporto con il mondo dell'arte, sulla cooperazione sociale e sulla psicogeografia. Pur se breve riteniamo sia un documento che non debba andare disperso per la sua chiarezza e allora: buona lettura!
Nelle scorse settimane, alla libreria Fahrenheit di Campo de’ Fiori, è stato presentato il libro “Il Luther Blissett Project a Roma 1995- 1999” edito da Rave Up Books.
Non è facilissimo spiegare chi è Luther Blissett, o forse si, se si vuole capire: è un nome collettivo, un multiple name. Prima di fare questa intervista ho letto il libro, facendo un tuffo nel passato.
Pensavo che molte pagine potessero essere abbastanza familiari a chi ha frequentato la facoltà di Sociologia a Roma, via Salaria 113, a fine anni ’90, o solo a chi è di Roma (di più se ha vissuto/frequentato San Lorenzo), dove Luther Blissett ha avuto esiti diversi – più scanzonati – dalla città di Bologna per esempio, dove lo pseudonimo è comparso per la prima volta (nel ’94) e dove poi è nata l’evoluzione del collettivo Wu Ming (nel 2000). In realtà, facendo un piccolo “sondaggio”, ho capito che sbagliavo per quanto riguarda la popolarità del multiple name. Non tutti conoscono Luther Blissett, da qui l’idea di dare direttamente voce a Luther Blissett.
Ecco lo scambio, con le mie domande e le risposte di non so chi, cioè si: di Luther Blissett.
Quando Luther Blissett è nato, a metà anni Novanta, il web era agli albori. Si è sviluppato come rete immensa e quasi mefistofelica come la conosciamo ora, soltanto dal 2000 circa. Allora, nel secolo scorso, aveva senso parlare di nome collettivo, di guerra al copyright, di guerrilla etc. Ora mi pare che il rischio sia quello di passare per fake, che se può sembrare ai più superficiali l’esito di una simile “procedura” assolutamente distante, per etica (collettiva vs individualismo) (bene comune vs ego falso e per finalità spesso subdole) e spirito d’ideazione. Trovo di forte potenza quello che è stato Luther Blissett negli anni ’90. Reiterare il discorso ora non avrebbe senso per me. Il libro “Luther Blissett Project a Roma 1995-1999” vuole chiudere un cerchio, ricordare e celebrare e niente altro, giusto?
Il libro non chiude alcun cerchio, l’unico cerchio chiuso che mi piace è quello spezzato dalla saetta degli squatters, il libro celebra il ventennale del Luther Blissett Project a Roma e di una generazione che ha utilizzato per un lustro, tra il 1995 il 1999, il mio nome, ma il multiple name continua ad essere utilizzato dalle nuove generazioni, magari in forme più disperse, ma continua ad essere utilizzato. Non sono stato il primo multiple name e non sono stato l’ultimo, senza nomi multipli come Monty Cantsin e Karen Eliot, o ancora prima nella storia come armen Konrad o il General Ludd, io non sarei mai esistito. Dopo di me molto altri ne sono arrivati in ambito politico e anti-artistico: Sonja Brünzels, Anna Adamolo, etc. e più recentemente in forme a mio avviso molto discutibili Janez Janša. Il multiple name non corre lungo la faglia individualismo/collettivismo quindi è ancora attuale, si tratta di nominare una folla anonima che abbia come finalità l’attacco a un sistema, nominare tale folla ha lo scopo di renderla più forte davanti al suo nemico. Se tutti sono me chi è il responsabile individuale? Come lo individuo per punirlo? Molti sforzi della criminologia del XIX e XX secolo quando si trattava di una rivolta compiuta da una folla erano indirizzati a individuare dei responsabili individuali, per farlo hanno dovuto renderla sempre più trasparente e oggi con gli smartphone la folla è più trasparente che mai. Il mutiple name permette di restituire opacità alla folla anonima, perché tale folla non ha più bisogno di presentarsi come un assembramento, può farlo, ma con un multiple name può anche non farlo ed evitare che vi siano responsabilità individuali, le quali non hanno senso quando ci si muove come una folla. Quanto alla comunicazione-guerriglia e al no copyright penso che siano più attuali che mai. La generazione anni ’90 che utilizzava il multiple name si muoveva con larghissimo anticipo e spesso ha prefigurato situazioni che erano solo allo stato germinale. Allora quella generazione non era compresa del tutto, solo dopo il 2000 molti attivisti hanno cominciato a rendersi conto dell’importanza strategica della comunicazione-guerriglia e del no copyright (che peraltro caratterizza da sempre tutti i movimenti autogestionari più avanzati). Ad esempio mai come oggi è chiaro ai lavoratori intellettuali che le idee sono il prodotto di un complesso gioco d’interazioni che chiamiamo cooperazione sociale e che l’appropriazione individuale di tali idee sa di qualcosa di indebito. Tale cooperazione sociale andrebbe pagata, non ha senso che venga capitalizzata solo dal più furbo, quello che per primo corre alla SIAE. Quanto al rischio di passare per “fake” non c’è problema, ero e resto un “fake”, non ho mai avuto la pretesa di essere reale, anzi negli anni ’90 il gioco era proprio quello del falso/vero, sono passati tanti anni e forse è un gioco oggi poco comprensibile, ma allora definivo la mia attività come “allegro inganno”. Ero un mentitore che diceva di mentire.
Mi interessa sapere qualcosa di più della fase in cui LB usava la definizione “arte performativa” per fare un po’ come voleva. L’episodio della macchina impacchettata mi pare sia stata una operazione degnamente “consapevole” e anche il “sabotaggio” della conferenza di Orlan. Che pensa LB del sistema dell’arte contemporanea, che è un circolo chiuso che nega anche al suo interno i suoi protagonisti, sempre per una guerra di ego tra partecipanti e figuranti (galleristi, critici, etc)? A voi continuano a piacere di più i rabdomanti che gli artisti?
La perfomance globale era l’utilizzo stesso del multiple name. Coloro che lo utilizzavano anche solo per un minuto o per un’ora, per divertimento, senza chiedere niente di più, senza sentirsi parte di un gruppo politico o anti-artistico, contribuivano alla mia reputazione e partecipavano della mia performance. Niente di più, niente di meno. L’episodio della macchina impacchettata è esemplare di come funzionava il gioco. Un giorno alcune mie ex personalità leggono un trafiletto su un giornale di un cittadino che si lamenta del fatto che la sua macchina era stata impacchettata. L’azione era firmata Harry Kipper, un multiple name da cui si è originato il mio. Non sapevano assolutamente chi fosse stato. Anzi molto probabilmente la lettera era solo uno scherzo. A quel punto queste mie ex personalità scrivono un volantino ispirandosi a quello che c’era scritto nel trafiletto e prendono a impacchettare macchine. Nel libro sembra lineare, ma questi giochi tra “dividui” che utilizzavano il multiple name non erano affatto lineari, erano il frutto di una cooperazione divertita e allegra che avveniva spesso tra sconosciuti. Anche il sabotaggio della Orlan fu del tutto improvvisato, non mi piaceva che lei si arricchisse con la stessa chirurgia plastica che un qualsiasi transesssuale adoperava sul proprio corpo per lavorare nelle strade. Questo era il punto. Si continua a sopravvalutare l’artista, a considerarlo un individuo speciale perché dotato di un genio e un talento non comuni, quella genialità e quel talento non comuni invece non esistono, sono contestuali, sono qualità che vengono attribuite arbitrariamente con l’unico scopo della speculazione economica, l’artista è un utile idiota. Il rabdomante invece è la figura paradigmatica del cercatore, nulla si crea dal nulla, tutto si trova dal gioco della cerca che è spesso e volentieri un gioco che avviene per condivisione.
A proposito di territori e cose da scoprire, la geografia urbana di cui parlavate negli anni Novanta a Roma è ovviamente in continua evoluzione. La metro C poteva far nascere una nuova Ley Line, ma pare che non ce la faccia. Io aspetto sempre il teletrasporto. LB vede quel che vedo io? Il San Calisto rimane fortunatamente con la sua identità anche grazie al barista titolare Marcello. Il Villaggio non esiste più. Il Forte sembra aver preso una virata di organizzazione gerarchica che ha più il sapore di “fuhrer” (letterale, capo) in fondo all’anima che spirito da centro sociale. LB che nuove psicogeografie vede nella Capitale all’alba del Giubileo?
Non sarei così severo con i compagni del Forte, ho criticato sempre la tribalità dei centri sociali, chiamandola “centrosocialismo reale”, ma cosa si vuole? La società perfetta realizzata? Al potere non si chiede mai di essere perfetto, anzi gli si perdona tutto, invece gli attivisti non possono sgarrare mai, devono essere impeccabili, devono essere l’esempio vivente del mondo altro che vorrebbero, tuttavia sono umani, sbagliano e talvolta riproducono anche banali dinamiche di potere. Quella che vuole gli spazi dell’attivismo come una società perfetta ed esemplare è la vulgata del giornalismo e una trovata per tenerli sotto ricatto e sotto scacco. Chi sta in un centro sociale ha fatto una scelta di vita difficile che in pochi farebbero e se sbagliano è del tutto naturale, sono una realtà in continua evoluzione che produce rapporti sociali del tutto sperimentali. Quanto alle nuove psicogeografie, penso che dovremmo cominciare a uscire dal GRA, già Warbear all’epoca ce lo diceva, le cose più interessanti dal punto di vista psicogeografico non stanno più nella “città compatta”, ma nei suoi spazi dispersi, laddove la Roma compatta si conurba con la Roma diffusa.