Il concetto di smart è un concetto apparentemente desiderabile, tuttavia implica una società composta di individui (vedremo come l'individuo oggi sia in realtà scisso, trasformato in un dividuo) la cui intelligenza si mobilita spontaneamente e volontariamente a favore del potere. Il concetto di smart applicato alle città è un’invenzione neoliberista e dell’economia neoclassica, che porta ciascuno a un double bind: sii libero, tuttavia per essere libero devi servire il potere e se non servi il potere non sei libero. Essere smart significa gestire questa contraddizione e le smart city sono territori in cui i cittadini hanno imparato a gestire questa contraddizione il cui unico scopo è far sopravvivere il capitale finanziario e multinazionale oltre i limiti delle sue reali capacità di tenuta. Così l’intelligenza di ciascuno è occupata da un lavoro gratuito, la conservazione del potere laddove esso cederebbe.

Era il 1990 quando Gilles Deleuze scriveva: “Non c’è bisogno della fantascienza per concepire un meccanismo di controllo che dia in ogni momento la posizione di un elemento in ambiente aperto, animale in una riserva, uomo in un’impresa (collare elettronico). Felix Guattari immagina una città in cui ciascuno può lasciare il suo appartamento, la sua strada, il suo quartiere grazie alla sua carta elettronica (dividuale) che faccia alzare questa o quella barriera, e allo stesso modo la carta può essere respinta quel giorno o entro la tal ora; ciò che conta non è la barriera ma il computer che ritrova la posizione di ciascuno, lecita o illecita, ed opera una modulazione universale”. (Deleuze, 1990: 61). Quanta fantascienza anni ’50 e ’60 invece c’è in questa speculazione sul controllo in ambiente aperto e, in particolare, in ambiente urbano, oggi che la tecnologia è un prodotto del lavoro complessivo e combinato dell’umanità intera che si autonomizza dal corpo della specie che la produce e che gli si ripresenta innanzi come un potere che la controlla e la domina?

Oggi lo sappiamo bene, oggi che non esiste più il controllo così come lo immaginavano Deleuze e Guattari. Eppure tiriamo un sospiro di sollievo perché se Deleuze e Guattari ventisei anni fa ritennero di doversi sperimentare in un discorso sul controllo durante la crisi della società disciplinare, allora possiamo immaginare che tutto prima fosse diverso e che ciò che oggi viviamo, in termini di libertà monitorata, di obbligo ad essere smart a livello di codici informatici, linguistici e semiotici per accedere alla comunità umana fittizia, di trasformazione delle sentinelle nei luoghi in approssimativi direttori di coscienza altrui, nel Novecento non se ne trovasse traccia. L’occhio di dio è stato sostituito con la fotocamera del vostro smartphone e i primi ad essere controllori e controllati allo stesso tempo siete voi.

Il concetto di smart è un concetto apparentemente desiderabile, tuttavia implica una società composta di individui (vedremo come l’individuo oggi sia scisso, trasformato in un dividuo), la cui intelligenza si mobilita spontaneamente e volontariamente a favore del potere. Del tiranno scrive De la Boëtie intorno al 1549 “Se non glieli deste voi, donde caverebbe egli tanti occhi da contarvi quanti passi fate? Donde caverebbe tante mani per bastonarvi, s’ei non le rubasse di tra voi? E s’egli si mette sotto a’ piedi le vostre città, que’ piedi non son vostri? …Dite proprio sul serio “non vogliam più servire”: ed eccovi bell’e liberi. Voi non l’avete a discacciare; non gli avete a dar la spinta: basta non lo reggere, e, simile ad un gran colosso, a cui si tagliasse via la base, eccotelo in terra per il proprio peso, e andare in mille bricioli” (De la Boëtie, 1549: 61-63).

Il discorso cambia con la tirannia pia e diffusa dei nostri giorni, quella denunciata da Saint-Just già durante la dichiarazione dei diritti dell’uomo: “Non basta decretare i diritti degli uomini; può darsi che un tiranno sorga e si armi anche di questi diritti contro il popolo; e di tutti i popoli il più oppresso sarà quello che da una tirannide piena di mitezza, verrà oppresso in nome dei suoi stessi diritti. Sotto una tirannia così pia, il popolo non oserebbe fare nulla per non compiere un delitto contro la libertà” (Saint-Just, 1792: 92). Il concetto di smart applicato alle città è un’invenzione neoliberista e dell’economia neoclassica, che porta ciascuno a un double bind: sii libero, tuttavia per essere libero devi servire il potere e se non servi il potere non sei libero.

Essere smart significa gestire questa contraddizione e le smart city sono territori in cui i cittadini hanno imparato a gestire questa contraddizione il cui unico scopo è far sopravvivere il capitale finanziario e multinazionale oltre i limiti delle sue reali capacità di tenuta. Così l’intelligenza di ciascuno è occupata da un lavoro gratuito, la conservazione del potere laddove esso cederebbe. Così De La Boëtie è neutralizzato e i nostri diritti figli della rivoluzione francese sono diventati un sottile modo di eternare la servitù volontaria. Alla smart city occorrono cittadini il cui soggetto è scisso in due (Kimura, 2013), che sappiano dominare il paradosso, talento che non è proprio degli individui ma dei dividui (Nietzsche, 1878-1879), di coloro che hanno una parte di sé votata alla libertà e un’altra di sé votata a servire incondizionatamente il potere. L’una non è reale se non è reale l’altra, si può immaginare di quali qualità sia contraddistinta tale forma di libertà. 

La sovranità si è esercitata per lungo tempo sullo spazio prim’ancora che sui corpi perché era un esercizio del potere preventivo, come scrive Simmel: delimitando il territorio si dice implicitamente che ovunque tu possa trovarti sei comunque sotto il suo potere. Qui o là. Puoi anche nasconderti, ma il suo potere si esercita comunque su di te indirettamente attraverso lo spazio geografico della sovranità. La disciplina che più di ogni altra ha contribuito a questo risultato è dunque la geografia e i dispositivi di oggi non sono che affinamenti di questa disciplina attraverso le ICT. Ascoltare, intercettare, visualizzare, ciò che conta non è tanto ciò che si dice ma individuare la posizione, il tipo di spazio in cui si trova offre il contesto con cui interpretare ciò che si ascolta o visualizza. Se parlo di prevenzione del terrorismo in una cena con amici in un appartamento del ceto medio nei territori della dispersione urbana sarà poca cosa, se ne parlo in confidenza e informalmente fuori da una commissione parlamentare saranno informazioni preziose.

La smart city è un’evoluzione delle forme di sovranità moderne basate sul territorio, solo che il controllo non si esercita più sui corpi esclusivamente in modo preventivo ma anche just in time sulla sulle loro posizioni e le loro traiettorie.  Questo perché oggi non ci sono solo lo spazio da una parte e i corpi dall’altra, ma in mezzo il linguaggio, la comunicazione, la relazione, le reti e i dispositivi. Non che non fosse in parte anche così in passato, ma oggi con l’uso sempre più performativo che si fa del linguaggio, la funzione sempre più suggestionante e allo stesso tempo tecnicizzata della comunicazione, le relazioni che si fanno sempre più precarie, le reti sempre più divise tra cooperazione e competizione, i dispositivi digitali che diventano sempre più una carta d’identità per accedere alla comunità umana fittizia, permettono alla sovranità non solo di essere immanente, di assicurarsi il potere in tempo reale, di avere una visione sinottica della specie e di tendere sempre a una configurazione totale più ordinata, assicurando la rimodulazione esteriore e continua della vita associata, ma il suggerimento continuo di come ciascuno debba rimodulare anche la propria interiorità.

Oggi chi vuole un mondo migliore? Non i rivoluzionari, che non hanno uno straccio di teoria politica innovativa (fermi come sono alle stesse teorie degli anni ’70 con un po’ di Foucault in più e la smartness postmodernista) né di immaginazione utopica, né i jihadisti. Gli unici che si sono costruiti il loro spazio concreto di libertà e uguaglianza sono i curdi, ma come c’è stato un comunismo di guerra a loro è toccato altrettanto in sorte un “comunalismo” di guerra. Oggi “un altro mondo è possibile” è lo slogan che si ripete in tutte le burocrazie del mondo, il mondo sta cambiando ma dagli uffici dei funzionari delle organizzazioni nazionali e internazionali (comprese le ONG).

La smart city non è che un modo di cambiare la forma dell’amministrazione di una città, dei suoi servizi alla persona e all’impresa, con la scusa di obbiettivi condivisibili da tutti. Sostenibilità, Benessere, Crescita (o l’eufemismo “Sviluppo”), Risparmio Energetico sono tutti termini che funzionano come dispositivi discorsivi persuasivi per spingere ogni volta che si manca l’obbiettivo i limiti un po’ più in là, è un freno debole che immagina il futuro come un mondo senza cuore. Si vuole salvare il mondo e si vuole salvare allo stesso tempo chi l’ha messo in crisi: il capitalismo. Le burocrazie sono finanziate da stati e capitalisti, stati e capitalisti hanno capito che se non salveranno loro il mondo il loro mondo cesserà di esistere, perché la classe operaia è indebitata fino al collo. Cadranno come un colosso cui manca la base e si sbricioleranno, e non saranno stati gli uomini ma il sistema-mondo interconnesso e immanente stesso ormai al collasso. 

La smart city non è resiliente, anzi rende la città più fragile, non migliora la qualità della vita, ci rende tuti più dipendenti dai macchinismi, ci spinge a tollerare sempre dosi di veleno in più chiamandola sostenibilità, chiama il benessere nella maggioranza dei casi indicatori quantitativi che misurano la ricchezza e trasformano tutto in capitale: i tuoi studi, le tue letture, i tuoi viaggi, le tue competenze monetizzati in capitale umano, i tuoi  amori, amici e i tuoi parenti in capitale sociale, le tue capacità cognitive di risolvere problemi in capitale intellettuale. Tutto è diventato capitale e il lavoro stesso si presenta come una delle sue forme. Non l’antropomorfosi del capitale come direbbe Camatte ma, inversamente, la capitalizzazione di tutto ciò che è della specie è l’indirizzo politico che guida il progetto della smart city.

Con la smart city si chiama crescita una maggiore accumulazione delle ricchezze nelle mani di pochi e la povertà dappertutto, poi ci penserà una media a dire quanto reddito pro capite ha una nazione. Si misura la povertà assoluta e quella relativa. Ma cosa s’intende per una vita più dignitosa, la possibilità di comprarsi una casetta e spendere in un centro commerciale per dominare meglio i codici semiotici? Andiamo! Può essere questa una vita intelligente? Può essere questo il futuro dei cittadini delle smart city? Quanto al risparmio energetico è certamente un obbiettivo condivisibile (come tutti gli altri), ma si risparmia non per non dover esaurire le risorse del pianeta (cosa che va contro l’idea di crescita) ma per ragioni geopolitiche ed ecolocratiche poco confessabili.

Allora se la sostenibilità è solo una parola che serve a sedurre studenti, professori e società civile, se benessere (soprattutto quando è misurato da indicatori soggettivi) è una parola che nessuno ha mai avuto il coraggio di sostituire al prodotto interno lordo, se crescita e il suo eufemismo sviluppo sono il segreto della fine di questo mondo, se risparmio energetico è una parola legata a doppio taglio con quella della guerra totale, se tutte queste parole sono come un velo di maya…. cosa davvero si vuole fare con le smart citiy? Sicurezza ovviamente. È la realizzazione del paradigma securitario definitivo l’obbiettivo delle smart city, non si scappa più, tutti dentro. È la forma di controllo del territorio e dei corpi da parte della sovranità che spazza via ogni eterotopia, è un trojan infilato dritto nella tua mente e te, che sai ora di essere controllato senza via di scampo, avrai maggiore autocontrollo, maggiore capacità di non fare sciocchezze, maggiore capacità di performance, perché lo devi dimostrare e questo ti renderà una persona intelligente. Te sei l’agente dei servizi di te stesso. Un doppio giochista obbligato, un lavoro gratuito per il potere, te stesso e il controllore di te stesso.

Una società di individui simili costruisce una società doppia, due stratificazioni, quella della libertà e quella oscura del suo automonitoraggio e del monitoraggio altrui continuo, d’altronde si taglia anche sulle spese alla sicurezza e questo metodo è molto più economico. Tuttavia non tutti sono disposti a mobilitarsi spontaneamente e volontariamente per il potere e il potere non è uno e indivisibile, ma è come un gas, un’atmosfera, qualcosa che si propaga e passa ovunque, comunque sia la cui provenienza è individuabile in dei soggetti precisi che decidono dei nostri codici di comunicazione e che ci lasciano liberi di utilizzarli nel modo migliore: come detto davanti a loro conta solo la performance. Quindi la smart city è una città doppia, sdoppiata, che non permetterà mai che si riformi una comunità umana reale, perché essa è smembrata fin dall’inizio in due dal di dentro.

La smart city è doppia, con un lato in chiaro e un lato infra, tuttavia vuole conservare a tutti i costi la parvenza dell’organizzazione ormai superata della Polis in spazio pubblico e spazio privato. Dello spazio privato si occuperanno il sistema di oggetti domotico più avanzato, tutti i dispositivi delle abitazioni sono già volendo interconnessi e controllabili a distanza con un smartphone. Tale organizzazione dello spazio domestico lo rende più fragile, vulnerabile e lo apre più facilmente a possibili violazioni. Frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, termostati, televisori e in generale tutta l’internet delle cose, dai pacemaker (che possono essere infettati con un virus informatico attraverso il bluetooth) alle automobili (il cui controllo può essere preso per deragliarle) diventeranno le porte cui accedere alle vostre password e alla vostra vita privata.  Laddove si tenta di adeguare lo spazio domestico alla dimensione smart dello spazio pubblico, in realtà si fa piazza pulita del già labile confine tra pubblico e privato.

Tuttavia non si tratta solo di questo, la smart city ha necessità di un nuovo tipo di mercato, di un nuovo tipo di consumo e consumatore. Baudrillard scrive: “Il sistema tecnico-industriale ha acquisito la capacità di modellare la nostra civiltà in modo duplice: nella sua incoerenza e nella sua coerenza. “Al vertice” usa la propria coerenza strutturale (tecnologica), mentre alla base usa l’incoerenza a-strutturale (ma diretta) del meccanismo di commercializzazione dei prodotti e di soddisfazione dei bisogni”. (Baudrillard, 1968: 239). Rispetto ad allora la tecnologia non rappresenta più una coerenza strutturale né la soddisfazione di bisogni un’incoerenza. La tecnologia oggi è flessibile e si adatta al consumatore così come il consumatore deve essere flessibile e adattarsi alla tecnologia. La soddisfazione dei bisogni pur come vedremo corrispondente a un feticismo per le ICT, ha oggi una coerenza impressionante. I nuovi bisogni pur se corrispondono a valori immaginari sono coerenti perché sono la condizione sine qua non attraverso la quale poter accedere alla comunità umana fittizia. Oggi se non hai profili digitali non esisti. Un tempo esisteva solo la realtà che passava per il televisore, così come oggi sono persone reali solo quelle che hanno un profilo digitale, gli altri sono dei clandestini, degli esclusi, sono i nuovi poveri. Così la smart city ha bisogno di cittadini che siano un nuovo tipo di consumatori il cui mercato principale sia quello delle ICT, senza il possesso di dispositivi si è esclusi e isolati dalla smart city. Il nuovo consumatore trasformerà la propria abitazione secondo i parametri della smartness, rendendola così trasparente. Lo spazio pubblico, i cittadini e la loro vita relazionale virtuale e spazio privato, queste sono le tre componenti necessarie allo spazio della smartness. Non ci aspetta che un mondo di delusione da tutto questo abuso di ICT, tuttavia non sarà troppo tardi.  

Quanto a una parola chiave delle smart city, “resilienza”, ci troviamo davanti al paradosso che tanto più essa è interconnessa quanto più i suoi dispositivi sono hackerabili. Essa diventa più vulnerabile che mai. Un attacco terroristico potrebbe distruggerne una interamente, si offre su un piatto d’argento il proprio suicidio. Il controllo come tutte le forme di potere paranoico offre molti spunti al nemico, dov’è la saggezza greca, la “metis”, che consisteva nel vincere non con la forza ma con l’astuzia un nemico più forte? Perché tutta questo abuso di ICT è una forma di esibizione di forza e una dichiarazione di guerra al nemico, a un nemico che è più forte perché più motivato. Come diceva Sennett la città è tanto più sicura quanto più è disordinata, dove colpisci? Se tutto è in ordine, se tutto è una totalità cibernetica perfetta, se una città funziona come una macchina olistica non ci vuole niente ad annientarla. Ma se essa si disperde, si frammenta, si rimescola in continuazione, se non vi sono luoghi indentitari e la circolazione è libera per tutti, se è possibile farne il luogo dei propri giochi e del proprio tempo libero senza dover consumare, ma semplicemente potendo utilizzare lo spazio liberamente senza doverlo richiedere a nessuno allora questa città diventa molto più resiliente. Sviluppa negli individui una forma d’intelligenza e autocontrollo completamente diverso da quello richiamato dal concetto di smartness, che potremmo chiamare con Marx General Intellect, un’intelligenza della cooperazione sociale che sviluppa talento nel risolvere problemi in situazioni di rischio e con mezzi apparentemente insufficienti, cooperazione sociale in una città e tra le città e non competitività in una città e tra le città.

Il General Intellect non conosce classi creative, non produce gentrificazione, non esclude chi è meno smart, esso sa trarre profitto da tutti e ritorna a tutti. La general intellect city è quella che vorremmo, certo avrà i suoi luoghi franchi e opachi. Saranno come i parchi, luoghi dove la città diviene opaca perché vi sarà il divieto di qualsiasi dispositivo. Non si tratta di una limitazione delle libertà personali almeno quanto non è limitazione delle libertà personali non buttare i mozziconi di sigarette accesi in un parco protetto. E comunque se uno non desiderasse disfarsi del proprio dispositivo potrebbe sempre evitare questi luoghi. Si tratta di creare una città intelligente ma con soste dove si è sicuri di ritrovare la dimensione dell’essere presso se stessi e con chiunque si voglia accanto. Il General Intellect non può fare a meno del disordine della città, perché il disordine insegna linguaggi altri, a scambiare opinioni tra gruppi diversi e alla tolleranza dell’altro, dunque aumenta la potenza della cooperazione sociale e diminuisce la componente competitiva. La tecnologia prodotta dall’umanità intera in questo modo non si autonomizzerebbe ma resterebbe immanente alle reti di cooperazione sociale e non potrebbe né controllarle né dominarle.

I marginalisti hanno messo in crisi la legge del valore di Marx basandosi su principi come il piacere, il desiderio e la soddisfazione personale degli individui. Merger ad esempio scrive: “il  valore non è inerente ai beni, non è una loro qualità e neppure un’entità indipendente che esiste per sé stessa. Esso è l’importanza che i beni concreti acquistano per gli uomini quando questi si rendono conto di dipendere dalla disponibilità di tali beni per la soddisfazione dei loro bisogni: senza tale consapevolezza dell’uomo il valore non esiste” (197). Per Merger il valore delle merci è soggettivo, è parte della sfera della soggettività di ciascuno. Anche per Jevons il termine valore ha un “carattere estremamente ambiguo e non scientifico” (81). L’economista inglese scrive: “Il valore di scambio non esprime altro che un rapporto: tale termine non dovrebbe mai essere usato in alcun altro senso. Discorrere semplicemente del valore di un’oncia d’oro è assurdo quanto il discorrere del rapporto del numero diciassette”. (82). Per Jevons l’oggetto dell’economia: “è rendere massima la felicità acquistando , per così dire, piacere col minimo costo penoso”.

E’ chiaro che il comunismo storico non poteva che crollare davanti a una società che esibiva e sviluppava queste teorie scritte entrambe nell’anno della Comune di Parigi, da una parte c’era il lavoro obbligato e dall’altra l’astuzia di mettere il piacere, il desiderio e la soggettività dell’individuo alla base della vita associata. Nonostante considerino entrambi il valore come in sé e per sé inesistente essi hanno gettato le basi della società consumista e dell’aumento esponenziale del feticismo per le merci. Se prima di Marx il feticismo delle merci consisteva nell’attribuire qualità desideranti proprie alle cose invece di considerare tali qualità il prodotto di un rapporto sociale, con i marginalisti il feticismo delle merci diventa una sublime perversione di massa che è solo nella psiche dei lavoratori. Non a caso i marginalisti scrivono anche di valore immaginario, intendendo quando si desidera qualcosa che si crede possa soddisfare i propri bisogni e delude. Di quanto valore immaginario si è servito il capitalismo quando ha cominciato a esaurirsi il valore reale?

Oggi molti marxisti dicono che la teoria del valore è in crisi, liberisti e neoliberisti lo sapevano da prima. Ci siamo arrivati troppo tardi perché nessuno legge il nemico. In questa situazione vi sono pro e contro. Vi è un cedimento del feticismo delle merci perché esse sono devenute trasparenti proprio grazie alle ICT, le ICT diventano allora esse stesse le merci oggetto del feticismo. E’ la fase finale del capitalismo, le ultime possibilità di salvarlo corrispondono proprio alla trasformazione delle città in un feticcio tecnologico in cui tutti sono intrappolati in merci da un valore immaginario, seppur coerente. La sovrastruttura è divenuta così smisurata che quel poco di struttura che resta non reggerà ancora a lungo, quando questa cederà sotto il peso di quella, si apriranno nuove possibilità per la specie e nuove forme di popolare lo spazio: le general intellect city saranno dappertutto.

 

Bibliografia:

Baudrillard J., Il sistema degli oggetti, Bompiani, 2003, Milano [1968] 

Bookchin M., Democrazia diretta, Elèuthera, 2005, Milano [1993].  

Camatte J., Verso la comunità umana, Jaca Book, 1978, Milano

De la Boëtie, Il contr’uno, Le Monnier, 1945, Firenze, [1576]

Deleuze G, “La società del controllo”, in DeriveApprodi, nn. 9-10, Febbraio 1996, pp.59-61, Roma [1990].

Jevons W.S:, Teoria dell’economia politica e altri scritti economici, UTET, 1947, Torino [1871]

Kimura B., Tra. Per una fenomenologia dell’incontro., Il pozzo di Giacobbe, 2013, Trapani.

Marx K, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, 1997, Scandicci, [1857-1858]

Merger C., Principi di Economia Politica, UTET, Torino [1871]

Nietzsche F. W., Umano, troppo umano, Adelphi, 2013 [1878-1879]  

Saint-Just, Terrore e libertà, Riuniti, 1966, Roma [1792-1794]

Sennett R., Usi del disordine, Costa&Nolan, 1992 Genova. [1970]

Simmel G., Sociologia, Edizioni di Comunità, 1998, [1908]