Per spazio astratto, solitamente, si considera uno spazio privo di concretezza opposto allo spazio vissuto. Obiettivo delle nostre argomentazioni è far emergere come l’astrazione di tale spazio abbia uno statuto di concretezza talvolta più stringente dello spazio vissuto, con delle ricadute nella vita quotidiana che hanno una presa sull’esistenza degli abitanti profonda, anche se spesso più enigmatica e impalpabile. Non intendiamo dire che lo spazio vissuto sia meno reale, che le sue conseguenze, il sogno, la mitopoiesi, l’affettività, l’esperienza che colmano i luoghi non abbiano il loro spessore nei processi di mutamento dello spazio, ma in un capovolgimento, forse contromano, delle teorie di Lefebvre e De Certeau intendiamo restituire concretezza allo spazio astratto. Se così non fosse, il sogno, la mitopoiesi, l’affettività, l’esperienza, ovvero tutto ciò che fa di un luogo uno spazio vissuto, si troverebbero disarmati e impotenti davanti ai dispositivi inesorabili dello spazio astratto. Non si tratta di tornare indietro, ma di fare un discorso sulle pratiche che le rafforzi. Riteniamo che lavorare a comprendere cosa si occulta dietro l’astrazione dello spazio possa offrire strumenti perché le pratiche passino dalla tattica alla strategia e possano confrontarsi finalmente con il loro nemico che finora è stato percepito come da nessuna parte e ovunque allo stesso tempo. Lo spazio astratto è un insieme di dispositivi, retoriche, procedure e soprattutto gruppi sociali individuabili che programmano, prendono delle decisioni e regolano non solo lo spazio ma, nello stesso tempo, la vita degli abitanti. Si tratta di gettare luce proprio su questo insieme di dispositivi, retoriche e gruppi sociali.

quartiere Don Bosco

Roma, la finanziarizzazione del patrimonio immobiliare

Sullo spazio e sul tempo si scrive come fossero cose

che non hanno ancora trovato

applicazioni nella vita pratica.

Karl Kraus, Detti e Contradetti

Considerazioni sullo spazio astratto

Per spazio astratto, solitamente, si considera uno spazio privo di concretezza opposto allo spazio vissuto. Obiettivo delle nostre argomentazioni è far emergere come l’astrazione di tale spazio abbia uno statuto di concretezza talvolta più stringente dello spazio vissuto, con delle ricadute nella vita quotidiana che hanno una presa sull’esistenza degli abitanti profonda, anche se spesso più enigmatica e impalpabile. Non intendiamo dire che lo spazio vissuto sia meno reale, che le sue conseguenze, il sogno, la mitopoiesi, l’affettività, l’esperienza che colmano i luoghi non abbiano il loro spessore nei processi di mutamento dello spazio, ma in un capovolgimento, forse contromano, delle teorie di Lefebvre e De Certeau intendiamo restituire concretezza allo spazio astratto. Se così non fosse, il sogno, la mitopoiesi, l’affettività, l’esperienza, ovvero tutto ciò che fa di un luogo uno spazio vissuto, si troverebbero disarmati e impotenti davanti ai dispositivi inesorabili dello spazio astratto. Lo spazio astratto domina lo spazio vissuto, tuttavia chi è quel nemico che costringe le pratiche a mobilitarsi esclusivamente nella tattica? Il rovesciamento di prospettiva realizzato da de Certeau è di fondamentale importanza se si pensa all’egemonia che per tanti anni hanno avuto gli studi sull’habitus, il potere e sulla sua microfisica (Foucault, 1976; Bourdieu, 1971-1975). Non si tratta di tornare indietro, ma di fare un discorso sulle pratiche che le rafforzi. Riteniamo che lavorare a comprendere cosa si occulta dietro l’astrazione dello spazio possa offrire strumenti perché le pratiche passino dalla tattica alla strategia e possano confrontarsi finalmente con il loro nemico che finora è stato percepito come da nessuna parte e ovunque allo stesso tempo. Lo spazio astratto è un insieme di dispositivi, retoriche, procedure e soprattutto gruppi sociali individuabili che programmano, prendono delle decisioni e regolano non solo lo spazio ma, nello stesso tempo, la vita degli abitanti. Si tratta di gettare luce proprio su questo insieme di dispositivi, retoriche e gruppi sociali. Ne “La produzione dello spazio”, per quanto se ne dica, Lefebvre scrive che “L’astrazione è considerata come un’«assenza», opposta alla «presenza» concreta degli oggetti e delle cose. Niente di più falso” (Lefebvre, 1974: 281). Inoltre, si tende a considerare lo spazio astratto come omogeneo, mentre come scrive Lefebvre: “Lo spazio astratto non è omogeneo, ma ha l’omogeneità per scopo, senso e «obiettivo». Esso la impone. In se stesso, lo spazio astratto è plurimo” (Lefebvre, 1974: 279). Gli antropologi urbani del Novecento, trattando dell’edilizia sociale hanno descritto lo spazio astratto come quello spazio disegnato dai progettisti in cui si palesa la loro distanza dagli abitanti in termini di classe e di riferimenti culturali. Distanza senza mediazioni che impone un’acculturazione più o meno forzata, poiché all’abitante è imposto di vivere in una casa in cui vi è incorporata una cultura che non è la sua ed è costretto ad interiorizzare l’ordine sociale e al tempo stesso la struttura cognitiva ed etica che ordinerà la sua vita psichica e corporea. In altri termini, appropriarsi di uno spazio culturalmente modellato significa essere forzatamente introdotti alla mentalità del gruppo sociale che ha prodotto quel modellamento. Ovviamente gli antropologi urbani di quell’epoca sapevano anche, ma alle volte non lo sottolineavano mai abbastanza, che nel momento dell’appropriazione e dell’uso vi è una resistenza che riproduce i modelli culturali del dominato e che lo difende parzialmente da tale acculturazione. Noi intenderemo lo spazio astratto in modo diverso da tali antropologi urbani. Quando parliamo di spazio astratto ci dovremmo riferire non tanto allo spazio disegnato, al diagramma o al lavoro di un élite di professionisti che impone i suoi modelli culturali alle classi proletarie, ma ai processi del mercato finanziario. Gaeta ha scritto: Mediante la saldatura tra l’azione istituzionale e finanziaria, prende avvio la formazione di un mercato immobiliare a scala urbana nel quale il valore di scambio conta di più del valore d’uso, nel senso di una formazione del valore immobiliare sempre meno vincolata alla qualità soggettiva dei partecipanti allo scambio e sempre più condizionata da parametri impersonali.” (Gaeta, 2006: 11). Nel Novecento gli antropologi urbani potevano denunciare la razionalità dei progettisti che prendevano in considerazione bisogni umani elementari da soddisfare in termini di cubatura, aerazione, affacci, dotazioni e attrezzature, perché lo spazio vissuto era molto più polivalente e polisemico di quanto essi non pensassero. Tali bisogni umani elementari erano comunque dei deboli riferimenti a valori d’uso, oggi non sono tenuti in conto nemmeno tali bisogni, ciò che la finanziarizzazione del mercato immobiliare produce è la perdita dell’immobile di “ogni legame con il suo valore d’uso” diventando puro “oggetto della valorizzazione economica” (Olmo, 2010: 43).  

Brevi cenni sulla finanziarizzazione del mercato immobiliare 

Il salto di qualità dello spazio astratto è avvenuto con il passaggio da un sistema economico fondato sul produttivo a un sistema economico fondato sul finanziario. Approdo di questo passaggio nel mondo immobiliare è stata “la crescente separazione tra coloro che utilizzano lo spazio urbano per finalità produttive e coloro che ne detengono la proprietà” (Gaeta, 2006: 97). Questo passaggio è partito dagli immobili che ospitavano le attività produttive, le quali con la globalizzazione e la delocalizzazione non necessitavano più la condizione di proprietà per garantirsi costi di produzione contenuti. In breve tempo con la separazione tra utilizzatori e proprietari nel produttivo, che nel ciclo immobiliare precedente corrispondevano agli stessi attori, si è passati da pratiche di trasformazione del territorio che privilegiavano il valore d’uso a pratiche che privilegiano ora il valore di scambio. Il valore sociale e contestuale incorporato negli immobili non ha più rilevanza a meno che non concorra all’accrescimento del loro valore finanziario (Ambrose and Colenutt, 1975: 42). È la fase tarda del capitalismo in cui si è assistito a un cambiamento radicale del mercato immobiliare. Come sostiene Degennaro vi è un’integrazione crescente tale del mercato immobiliare e del mercato finanziario che l’investimento immobiliare viene considerato alternativo o complementare a quello in prodotti finanziari (Degennaro, 2008). Detto altrimenti “un asset immobiliare viene considerato alla stessa stregua di un asset finanziario e la rendita immobiliare viene di conseguenza assimilata, non più soltanto da un punto di vista teorico, al rendimento di un investimento finanziario a lungo termine” (Gaeta, 2006: p. 81). La finanziarizzazione è resa possibile dal coordinamento di politiche pubbliche, investimenti privati, politiche creditizie e nuovi strumenti di gestione della domanda come le cartolarizzazioni, i fondi immobiliari, le società di spin-off, i Real Estate Investment Trust. Un intreccio apparentemente complesso che ne esalta il carattere astratto ma che, di fatto, fa riferimento, a leggi, luoghi fisici di lavoro e gestione, gruppi sociali che ne programmano lo svolgimento. Tuttavia mentre le attività produttive venivano sottoposte a questa separazione tra utilizzatori e proprietari, i grandi patrimoni immobiliari residenziali venivano sottoposti a un processo inverso, venivano ovvero ceduti a “società-veicolo” per procedere alla loro alienazione e dispersione. Da una parte si divideva uso e proprietà dall’altra si incentivava l’abitare come imprescindibile dalla proprietà privata dell’abitazione, unendo uso e proprietà. Nel caso dello spazio abitativo il capitale si è incorporato sempre di più nello spazio fisico e con l’indebitamento delle famiglie è possibile sostenere che il capitale vi sia rimasto intrappolato non potendo più essere facilmente riscattabile. Gli attori del mercato immobiliare, in questo caso le agenzie di credito, possono anche pignorare l’abitazione tuttavia se il fenomeno diviene diffuso come nella crisi immobiliare americana del 2006 non solo i prezzi delle abitazioni sono destinati a cadere ma le abitazioni restano invendute, desertificando le città. La crisi economico-finanziaria attuale è dovuta in gran parte al cedimento del sistema basato fondamentalmente sulla cartolarizzazione dei crediti sub-prime, un default delle forme di finanziarizzazione del mercato immobiliare in cui il capitale è come bloccato nello spazio che ha prodotto. Il contraccolpo è che con l’indebolimento delle politiche immobiliari pubbliche e private il processo di astrazione dello spazio giunto al suo apice perde progressivamente di opacità permettendo la riorganizzazione consapevole del suo opposto, ovvero degli spazi vissuti, di quei territori della condivisione in cui si sperimentano nuove forme di sociabilità che hanno ora l’opportunità di muoversi in maniera strategica oltre che tattica.

Gestione degli immobili dello Stato e adozione di modelli neoliberisti.

In Italia di questo radicale cambiamento lo Stato è diventato in breve tempo, e a seguito di una serie di scelte normative, uno degli attori principali. Fondamentalmente, il modello neoliberista di gestione degli immobili è stato adottato dallo Stato nell’intento di poter generare liquidità, per la riduzione dell’indebitamento delle amministrazioni, l’emersione di plusvalori e, non ultima, la riduzione della spesa corrente (De Rada, 2009: p. 55-57). Dall’inizio degli anni ’90 in Italia si sono avvicendati una serie d’interventi normativi indirizzati a facilitare questo processo. Si è partiti con decreti e leggi che autorizzavano gli enti locali all’alienazione del loro patrimonio con il fine di reinvestire il denaro in opere pubbliche (L. 430/1990) e si è proceduto rapidamente verso la deregulation fino ad arrivare alla L. 388/2000 che ha fornito le Pubbliche Amministrazione di dispositivi finanziari come le cartolarizzazioni e i fondi immobiliari. Nel 2001 con la L. 410/2001 di conversione del D.L. 351/2001, è stata avviata la privatizzazione e valorizzazione dei patrimoni immobiliari dello Stato attraverso la creazione di Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici (SCIP 1 e, in seguito, SCIP 2). Fino ad arrivare negli anni della crisi alla L. 244/2007 che ha introdotto lo strumento dei “Piani di Valorizzazione dei Beni Pubblici” attraverso i quali beni demaniali interessati da tali piani potevano essere declassificati e resi disponibili. Inoltre con la L. 133/2008 si approfondisce la ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare disponibile a procedure di trasformazione e alienazione: in sostanza l’obiettivo era quello di reperire liquidità con urgenza. Infine, recentemente, si è disciplinata la creazione di un sistema integrato di fondi immobiliari, con l’obiettivo di accrescere l’efficienza dei processi di sviluppo e di valorizzazione dei patrimoni immobiliari di proprietà degli enti territoriali, di altri enti pubblici e delle società interamente partecipate dai predetti enti (D.L. n. 98 del 2011). Negli ultimi anni “con il decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 19 marzo 2013 è stata istituita la Invimit SGR (Investimenti Immobiliari Italiani Società di Gestione del Risparmio Società Per Azioni) con l’obbiettivo di istituire fondi che partecipino a quelli immobiliari costituiti da enti territoriali, anche tramite società interamente partecipate, a cui conferire immobili oggetto di progetti di valorizzazione (‘fondi di fondi’). Al fine di conseguire ulteriormente la riduzione del debito pubblico” (Camera dei Deputati, 2014, web). Parallelamente a questo processo di astrazione dello spazio, nel 1998 vengono definitivamente soppresse le trattenute per il finanziamento delle case popolari sulle buste paga (ex G.E.S.C.A.L.). Scompare dal bilancio dello Stato ogni finanziamento per l’E.R.P. (Edilizia Residenziale Pubblica), e si dà inizio all’alienazione anche di tale patrimonio, fino ad arrivare oggi al D.L. n. 47 del 2014  che ha come obbiettivo “l’accelerazione del processo di definizione delle nuove regole di alienazione degli immobili di proprietà degli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP) o degli enti, comunque denominati che li hanno sostituiti, nonché degli immobili di proprietà dei comuni e degli enti pubblici anche territoriali, dall’altro a concedere contributi per l’acquisto di tali alloggi”(Camera dei Deputati, 2014). Concludendo, l’obiettivo è in sostanza, da un lato, “fare cassa” per diminuire il debito pubblico, scegliendo come strada quella della valorizzazione per rendere il bene alienabile ad un prezzo di mercato, e dall’altro portare avanti l’alienazione del patrimonio immobiliare residenziale, attuando dal 1998 in poi una svolta politica chiara nella gestione del Welfare che situa lo Stato in una posizione contraddittoria ed equivoca. L’alienazione del patrimonio pubblico è un processo straordinariamente adatto alle esigenze della crisi del capitalismo, ampiamente condiviso da tutti gli strati sociali poiché l’aspirazione alla proprietà della casa è vissuta come un irrinunciabile diritto. Gaeta, citando Harvey, in merito agli interventi di Hausmann a Parigi, sostiene che “Lo stato come agente di urbanizzazione capitalistica avvertì dunque un sentimento oscuro dei propri compiti e produsse esiti che andarono ben oltre le intenzioni manifestate dai protagonisti” (Gaeta, 2006: p. 56). Riteniamo che il processo di dismissione appena descritto sia andato nelle sue conseguenze ben al di là delle intenzioni dei suoi protagonisti, non solo non ha prodotto la liquidità sperata, ma ha cambiato profondamente l’antropologia dell’abitare di interi quartieri, trasformando dall’interno gli spazi vissuti. 

Roma, cartolarizzazioni e valorizzazioni: il quartiere Don Bosco e l’ex-dogana di Scalo San Lorenzo

Attraverso l’istituzione delle società SCIP 1 e SCIP 2, aree consistenti di quartieri delle grandi città italiane sono state immesse sul mercato. In particolar modo SCIP 2 è stata, secondo la stessa affermazione del Ministro Tremonti, “la più grande cartolarizzazione immobiliare fatta da uno Stato Europeo” (Bonazzi, 2009). Ha riguardato 62.880 immobili di cui circa il 60% collocato nel Centro-Italia, nella maggioranza dei casi a Roma. In effetti, una parte considerevole del patrimonio immobiliare degli Enti si è consolidato a Roma a partire dal dopoguerra per dare una risposta efficace alla grande pressione demografica degli anni ‘60. Vorremmo qui brevemente descrivere cosa è accaduto a seguito della dismissione del patrimonio INPDAI (patrimonio che riguardava il 33% dei 62.880 immobili), dal 2002 INPS, nel quartiere Don Bosco a Roma. Il quartiere fa parte dell’ex Municipio X oggi Municipio VII, il Tuscolano, l’area più popolata di Roma, circa 310.000 abitanti, situata a sud-est della città. Il quartiere Don Bosco è la parte del Tuscolano delimitata a Nord dal parco e dall’aeroporto di Centocelle e dalla via Casilina, a sud dalla Tuscolana, a ovest dal quartiere Quadraro/Porta Furba e a est dagli stabilimenti di Cinecittà. Occupa 5,837 kmq, con una popolazione di 66.621 abitanti. Il quartiere nasce sotto la spinta dell’industria culturale cinematografica e intorno alla Basilica di San Giovanni Bosco, da cui prenderà il nome, inaugurata nel 1957, su progetto di Gaetano Rapisardi che curò anche l’impianto generale del quartiere. Gran parte del patrimonio INPDAI è proprio di quegli anni e rispondeva ad un bisogno urgente di alloggio della classe operaia proveniente soprattutto dal Sud d’Italia che si concentrava in baraccopoli all’ingresso di Roma. La popolazione del Quartiere Don Bosco era per lo più formata da operai, impiegati, lavoratori dello Stato e all’epoca dello SCIP 2 era formata prevalentemente da abitanti oltre i 50 anni di età. Le tipologie edilizie sono molto semplici e ripetitive, gli alloggi raramente superano gli 80 mq. Gli immobili occupano interi isolati all’interno dei quali si ripetono più blocchi di edifici connessi tra loro da locali commerciali, ai piani terra, sul perimetro dell’isolato, e da piccole ma interessanti corti e giardini all’interno. Gli immobili sono sempre non inferiori ai 7 piani fuori terra, questo fatto giustifica l’alta densità abitativa del quartiere che nel 2012 corrispondeva a 66,43 ab/ha. Buona parte del patrimonio INPDAI nel quartiere Don Bosco è stato venduto entro il 2008, anno in cui i patrimoni sono tornati dalla SCIP 2 agli Enti e le vendite sono state sospese per riorganizzarle. Da allora il quartiere ha subito delle profonde trasformazioni socio-spaziali legate principalmente al cambiamento di statuto dei suoi abitanti da affittuari a proprietari. Attraverso una serie di interviste abbiamo cercato di indagare e ricostruire i cambiamenti che sono intervenuti dopo la cartolarizzazione. A soli sei anni dall’interruzione delle vendite una consistente parte degli immobili sono stati rivenduti o riallocati, in alcuni immobili su un blocco-scale di 32 appartamenti solo 4 sono rimasti ai proprietari originari. Dunque, gran parte della popolazione originaria è stata sostituita. Gli immobili sono stati rivenduti a prezzi fino a quattro volte le quotazioni a cui erano stati acquistati o affittati a prezzi di mercato. Gli abitanti rimasti ammettono che si sono trovati “impreparati” al cambiamento di condizione e che vivono attualmente una sorta di stato di spaesamento, in cui vi è la perdita dei punti di riferimento con cui avevano vissuto, reagendo spesso creando gruppi di autodifesa come “Cinecittà Bene Comune”. Ciò è dovuto anche al fatto che il resto della popolazione si è dispersa dissolvendo lo spazio vissuto del quartiere. Questi immobili erano la garanzia materiale della redistribuzione della ricchezza, con affitti non speculativi che assicuravano giustizia spaziale tutelando il diritto all’abitazione. La vendita e il conseguente accesso a sistemi creditizi per l’acquisto ha messo all’opera un dispositivo per cui la proprietà della casa da un lato ha soddisfatto un’aspirazione che si sente sempre più come un diritto della persona, ma che, dall’altro, ha suggerito agli abitanti di prendere la via della speculazione.  Queste aree urbane incorporavano antropologicamente la società che li abitava, quando invece si sono trasformati attraverso tali processi in quartieri di proprietari, è cambiato completamente il rapporto tra l’abitante e il proprio spazio, fino alla dissoluzione.

Caso completamente diverso, è quello delle Società di valorizzazione come l’ex-Fintecna Immobiliare. Fintecna Immobiliare era una società controllata al 100% dal MEF, creata dalla privatizzazione fatta negli anni ‘90 dell’IRI, passata recentemente in Cassa Depositi e Prestiti. Molti degli immobili del Portfolio ex-Fintecna sono immobili ex-produttivi (es. manifatture tabacchi) o immobili precedentemente destinati ad uffici (Poste, Zecca dello Stato, Istituti di ricerca), e alcune aree dismesse di vario genere, e hanno una distribuzione su tutto il territorio italiano. Le politiche immobiliari di questa società riflettono esattamente i modelli tardo capitalistici, si svolgono sempre attraverso percorsi di valorizzazione rispondenti a dinamiche top-down. A seconda degli interessi dei potenziali acquirenti e concordando i termini con le amministrazioni locali, si dà luogo a possibili prefigurazioni di valorizzazione, il valore che viene attribuito al bene non è un valore che gli è proprio in quanto spazio fisico, per l’uso cui era destinato in origine o per l’uso che eventualmente l’ha ridestinato dal basso, l’investitore propone il programma di sviluppo del luogo, a seconda di ciò che può creare più plusvalore, e decide di investirvi. L’interesse per il contesto sociale è puramente strumentale, si procede solamente in termini di idoneità economica. In seconda battuta si chiama uno studio “brandizzato” per rendere l’investimento ancora più attraente e si produce un masterplan. I masterplan possono essere molteplici, ognuno con destinazioni diverse a seconda dell’investitore. Il caso dell’ex-dogana di San Lorenzo è esemplare. Quest’area si trova schiacciata tra il viale di Scalo San Lorenzo, i binari che arrivano alla Stazione Termini e la Tangenziale Est. Ha un solo affaccio aperto, quello su Scalo San Lorenzo, il resto è incuneato tra le infrastrutture.

È composta dall’edificio della dogana storica con il fronte su Scalo San Lorenzo e una serie di annessi e capannoni sul retro. Gli edifici hanno ospitato fino al 2009 parte degli uffici della dogana. A seguito dell’apertura della nuova Stazione Tiburtina l’area produttiva compresa tra quest’ultima e la stazione Termini è interessata da una ristrutturazione, l’area dell’Ex-Dogana ha perso di importanza strategica ed è stata inserita tra gli immobili disponibili per la valorizzazione e vendita. E’ stata collocata nella joint venture “Residenziale Immobiliare 2004” di cui Fintecna deteneva una percentuale (70%) e il resto (30%) era in mano a un gruppo di privati (Fingen), ed è stata interessata da numerose proposte di valorizzazione. L’area si trova nel quartiere di San Lorenzo, luogo simbolo delle lotte di classe della città e uno dei centri nevralgici della vita studentesca e del consumo di tempo libero notturno. Un quartiere dove i conflitti sociali sono molto acuti, in cui i movimenti per il diritto alla città sono molto attivi e che è caratterizzato da anni dalla mancanza di servizi. I progetti che negli anni si sono susseguiti, fino al SAP (Schema di Assetto Preliminare del 2009) pur leggendo nel territorio le cesure esistenti e i conflitti emergenti, hanno sempre perseguito l’interesse dei possibili investitori. Dunque, se il mercato indicava che un possibile investimento su residenze per studenti era vantaggioso in un determinato periodo si produceva un masterplan in tal senso, se la dogana rivendicava in parte l’uso di quel suolo si produceva un altro tipo di masterplan con un mix funzionale terziario/residenziale, se, infine, una grande catena di supermercati riteneva quell’area interessante si proponeva un mix tra residenziale/commerciale. Al cambiamento degli interessi del mercato si cambiava anche il tipo d’intervento sul territorio. Fintecna si presentava come un gruppo Immobiliare che aveva come scopo la valorizzazione per la vendita dei beni immobiliari “disponibili” dello Stato, tuttavia a forza di voler stare ad ogni costo nel mercato, adottando le politiche dei privati, con il sopravvento della crisi questi immobili sono divenuti di scarsa attrattiva, per cui nessuno al momento è disposto più a investirvi. Questa situazione ha portato Fintecna a ritrovarsi il patrimonio sospeso, aprendo spazi ancora più ampi alle pratiche dal basso. Di fatti, l’immobile è stato già simbolicamente occupato da Action, attivisti della casa, e il quartiere ne rivendica l’uso. A Roma nell’ultimo decennio si è disegnata una geografia delle valorizzazioni attraverso numerosi programmi su luoghi dismessi, immobili di pregio e aree ancora non costruite che restituivano in dettaglio la politica di gestione del territorio attuata dallo Stato attraverso questa società. Nonostante l’alto profilo dei professionisti chiamati a rispondere di questo tipo di programmazione i progetti sono tutti dettati da istanze di valorizzazione su modello privatistico e dunque di scarso interesse per la collettività. Tali temi vanno approfonditi senza dubbio, perché tali istanze di valorizzazione hanno cominciato a strumentalizzare le culture urbane come la street art e la club culture. Una metodologia d’indagine in depth dello spazio urbano dovrà tenere d’ora in poi insieme i due lati dell’esperienza dello spazio, lo spazio vissuto e lo spazio astratto, perché come speriamo si sarà chiarito lo spazio astratto non risulta meno concreto e individuabile.  

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