**L’altercittà: il fuori prospera di nuovo**
Per troppo tempo ci siamo sentiti dire che non vi era più un'esteriorità al capitale, oggi con il ritorno della sussunzione formale del capitale, seppur in forme diverse dalle precedenti, con l'affermazione di un'epoca sotto tutti i punti di vista in discontinuità con il postmoderno e con l'emergere delle altercittà ci sembra si possa dire che il fuori stia riprendendo a prosperare ovunque. Non si tratta solo di attimi poetici che sfuggirebbero alla presa del potere, si tratta di forme di associazione, cooperazione e organizzazione terze, alternative sia allo stato sociale che al mercato autoregolato, con le quali si provvede a necessità e desideri che le politiche pubbliche e private garantiscono sempre meno. Oggi si può cominciare a riaffermare che il capitale non inventa nulla, recupera tutto, dall'esterno.
Negri e Hardt hanno scritto di una contromodernità che starebbe alla modernità come la resistenza sta al potere nella teoria di Foucault. Ovvero un insieme di pratiche che offrono sempre e comunque una presa al potere e che gli permetterebbe di riprodursi. Con questa mossa pensano di rovesciare il punto di vista e di spostare l’attenzione sui processi di contro-modernizzazione dell’Europa da parte delle popolazioni non occidentali. In realtà si tratta ancora di una mossa eurocentrica, le popolazioni che sono state aggredite dagli europei non avevano proprio nulla a che spartire con la modernità, non erano premoderne, non erano contro-moderne e non erano anti-moderne, ma completamente estranee alla modernità.
Tuttavia questa mossa non poteva bastare, per non rimanere intrappolati nella circolarità della teoria foucaultiana, e quindi nella dialettica resistenza/potere e contro-moderno/moderno Negri e Hardt hanno dovuto fare anche una mossa diagonale e obliqua prendendo a prestito il termine “altermodernità”, senza riconoscere alcun debito verso Nicolas Bourriaud, riconcettualizzandolo e facendolo arretrare rispetto al suo senso più interessante, ovvero quello di un’epoca in discontinuità con la postmodernità.
Negri e Hardt utilizzano il concetto di “altermodernità” per spezzare la dialettica contro-modernità/modernità e credono di avanzare nel discorso concependolo in modo che esprima una rottura del campo di forze a favore della contro-modernità invece che a favore della modernità, in quanto non sarebbe che il passaggio dalla resistenza antimoderna a una globalizzazione alternativa. Postmoderno, ipermoderno e altermoderno sono individuati come altrettante rotture con il moderno. L’errore di Negri e Hardt che in passato non hanno esitato a servirsi di concetti postmodernisti o di accogliere tanti argomenti del postmoderno è di non afferrare il concetto di altermoderno non come in rottura con il moderno, ma piuttosto come in rottura con il postmoderno. Negri e Hardt non sono né dei postmodernisti di resistenza, né dei postmodernisti neoconservativi, ma restano profondamente postmodernisti, dei postmodernisti alternativi. Il loro tentativo di confrontarsi ancora e ancora una volta con la modernità ne fa due autori invischiati profondamente con questioni superate.
Quando scrivono: “occorre passare dalla resistenza all’alternativa, individuare se e come i movimenti possono conquistare autonomia e liberarsi dalle relazioni di potere della modernità” (Negri e Hardt, 2009: 108), o ancora “l’altermodernità ha un rapporto trasversale con la modernità. Essa è in conflitto con la modernità come l’antimodernità, ma indirizza nettamente le forze verso una prospettiva di autonomia” (Negri e Hardt, 2009: 108), non riescono proprio a comprendere che l’altermodernità è un’alternativa per conquistare autonomia e liberarsi dalle relazioni di potere della postmodernità e non da quelle della modernità che sono state spezzate da tempo e sono ormai ineffettuali. Affermazioni come “con questa espressione, altermodernità, intendiamo una rottura completa con la modernità e con le sue relazioni di potere” (Negri e Hardt, 2009: 108) non fanno poi che sostituire al termine postmoderno così come era inteso negli anni ’80 e ’90 quello di altermoderno, concetto che invece non ha senso se non se ne riconosce il senso di rottura con quello di postmoderno.
Per Negri e Hardt termini come “altermodernità”, “postmodernità” e “ipermodernità” sarebbero contemporanei: “L’altermodernità, pur condividendo alcuni contenuti dei discorsi sull’ipermodernità e la postmodernità, è qualcosa di profondamente diverso” (Negri e Hardt, 2009: 118). Essendo contemporanei sono diverse modalità di rapportarsi al moderno: “Ognuno di questi concetti produce uno strappo più o meno profondo nella modernità, ma la natura di queste rotture e il genere di potenzialità cui danno vita sono piuttosto differenti” (Negri e Hardt, 2009: 118). I loro distinguo tra le tre forme di rapportarsi al moderno sono quindi viziati all’origine: “L’ipermodernità non è altro che una prosecuzione delle gerarchie di comando della modernità” (Negri e Hardt, 2009: 119), “la postmodernità è indicativa di una rottura più sostanziale con la modernità di cui decreta la fine dei fondamenti” (Negri e Hardt, 2009: 119), “a differenza di molti assunti della postmodernità, l’altermodernità è capace di generare nuovi valori, nuovi saperi, e nuove pratiche. In altre parole, altermodernità è un dispositivo per la produzione di soggettività” (Negri e Hardt, 2009: 120). In realtà, sia l’ipermoderno che l’altermoderno sono stati concepiti dagli autori che ne hanno sviluppato le tesi come ciò che si costituisce “oltre” la postmodernità, l’uno come una sua prosecuzione e accelerazione, l’altra come una discontinuità. Siamo perfettamente d’accordo che l’altermodernità sia capace di generare nuovi valori, nuovi saperi e nuova pratiche, ma ne è capace perché si è lasciata alle spalle le pratiche di repertorio del postmoderno, inoltre, a nostro avviso, non si tratta di un “dispositivo per la produzione di soggettività” perché i dispositivi sono incapaci di generare soggettività.
Dal nostro punto di vista l’altermodernità coincide con un insieme di azioni che hanno ripreso a popolare il fuori. Il saggio di Negri Hardt apre invece sostenendo che non c’è più un fuori: “La prima conseguenza della globalizzazione è la creazione di un mondo comune, un mondo che, bene o male, ci riguarda tutti, un mondo rispetto al quale non c’è alcun ‘fuori’” (Negri e Hardt, 2009: 7). Eppure in questo saggio parole come “autonomia”, “separazione”, “esodo”, “eccedenza” e la costatazione davvero centrale per ogni discorso sulla contemporaneità di un ritorno della sussunzione formale del capitale sul lavoro dopo decenni di sussunzione reale fa pensare che questa teoria avrebbe funzionato meglio ammettendo che effettivamente un fuori c’è. La tensione continua tra la concezione di un’immanenza chiusa da tutti i lati e la concezione del comune che verrebbe espropriato dal di fuori attraversa tutto il libro e porta a delle aporie interessanti. La tensione tra fuori e dentro e il loro tentativo addirittura di abolirla, né un dentro né un fuori, è il punto debole fin troppo evidente del loro lavoro.
Negri e Hardt negano alla soggettività e al comune un fuori senza per questo negarlo al capitale, noi saremmo dentro, senza possibilità di uscita se non la rivoluzione e anche questa si presenterebbe solo come un esodo nel nostro stesso luogo, ma il capitale sarebbe libero di fare ciò che vuole qui ed ora e dal di fuori. Ad esempio i due autori scrivono: “Oggi l’accumulazione capitalistica è in gran parte esterna ai processi produttivi, essa cioè assume la forma di una espropriazione del comune” (Negri e Hardt, 2009: 143), oppure: “Il capitale è sempre più esterno ai processi produttivi e alla generazione di ricchezza. In altre parole, il lavoro biopolitico è sempre più autonomo” (Negri e Hardt, 2009: 147). E ancora: “il capitale è sempre più esterno e riveste un ruolo sempre meno direttivo nei processi produttivi” (Negri e Hardt, 2009: 147-148). Insomma non c’è più un fuori, ma non c’è più un fuori solo per noi, ciò non vale per il capitale e soprattutto per il capitale finanziario: “Solo la finanza è capace di imporre la flessibilità, la mobilità e la precarietà dalla forza lavoro biopolitica riducendo i costi della sua riproduzione tramite i tagli alla spesa pubblica e al welfare. La chiave del potere della finanza è che essa rimane all’esterno dei processi produttivi” (Negri e Hardt, 2009: 290). È chiaro che se il comando e il controllo vengono dall’esterno il conflitto dovrà essere contro tale comando e controllo esterno: “Il lavoro biopolitico non rifiuta la mobilità e la flessibilità in quanto tali (non ha nessuna intenzione di tornare alla rigidità della fabbrica fordista) ciò che rifiuta è il controllo esterno su di esse” (Negri e Hardt, 2009: 290). Eppure se il capitale, e in particolar modo la finanza, sono esterni ai processi produttivi, i processi produttivi dovranno essere esterni al capitale, e in particolar modo alla finanza. Chiamiamola pure autonomia, ma si tratta di un fuori, infatti, in certi passaggi i due autori si lasciano sfuggire: “Il capitale cattura ed espropria valore mediante lo sfruttamento biopolitico, un valore prodotto, in un certo senso, esternamente” (Negri e Hardt, 2009: 146). Oppure si legga il seguente passaggio: “Il cosiddetto precariato [… ] dipende ancora dal salario per la sua riproduzione, ma è sempre più esterno al rapporto di capitale, in quanto il precario si allaccia a redditi e risorse necessarie per la sua riproduzione che deve ricavare da altre fonti di ricchezza sociale” (Negri e Hardt, 2009: 291).
Che il comune sia esterno al capitale e che esso debba sussumerlo formalmente è chiaro nella descrizione, peraltro molto avveduta, di come si formi il valore della proprietà immobiliare: “La natura del valore della proprietà immobiliare non può essere spiegata dall’interno, può essere compresa soltanto facendo riferimento a fattori esterni” (Negri e Hardt, 2009: 159). Riportiamo per intero il passaggio sulla formazione del valore immobiliare perché è uno dei passaggi più acuti del libro: “ll valore di un appartamento, di un edificio o di un lotto localizzato in una città non è riducibile alle caratteristiche intrinseche della proprietà come la qualità e le dimensioni della costruzione. Nelle metropoli, il valore della proprietà immobiliare è determinato in prima istanza dalle esternalità –le esternalità negative come l’inquinamento, la congestione del traffico, il rumore provocato dal vicinato, alti livelli di criminalità, la discoteca che non ci fa dormire il sabato notte, e le esternalità positive come la prossimità con i campi da gioco, relazioni ed eventi culturali interessanti, circuiti di scambi intellettuali e interazioni sociali serene e stimolanti. Attraverso queste esternalità, incontriamo uno spettro del comune” (Negri e Hardt, 2009: 159).
Eppure ancora una volta devono internalizzare il comune credendo a questo modo di sfuggire a qualsiasi tentazione di trascendenza: “Gli economisti riconoscono il comune ma solo al di fuori dei rapporti economici e cioè come ‘economia esterna’ o più modernamente come ‘esternalità’. Per comprendere la produzione biopolitica occorre rovesciare questa prospettiva e dunque internalizzare le esternalità e porre il comune al centro dell’economia” (Negri e Hardt, 2009: 281). Se per internalizzazione s’intendono misure per pagare le esternalità positive come un reddito garantito, appartamenti accessibili a tutti, mobilità e servizi gratuiti siamo perfettamente d’accordo, ma non vanno sottovalutati alcuni propositi puramente intellettuali di questo saggio e il suo ritornello: “non c’è un fuori”. Noi riteniamo che tale fuori sia sempre a portata di mano proprio per le stesse argomentazioni al cuore del saggio di Negri e Hardt, ovvero che il capitale e la finanza sono tornati alla sussunzione formale e hanno sempre meno presa sul lavoro dall’interno. La teoria di Negri e Hardt avrebbe convinto di più se avessero ammesso che un fuori c’è ed è il comune stesso. Sul rapporto tra comune e capitale sono troppo ambivalenti, dicendosi convinti che non vi sia un fuori ma ritenendo, in fondo, che la produzione biopolitica sia esterna al comando del capitale o che il comando del capitale sia esterno alla produzione biopolitica.
Il motivo di tale ambivalenza è puramente ideologico, non possono disfarsi a cuor leggero di Deleuze e Guattari e di Foucault che li hanno liberati dalla catena della dialettica hegeliana e accettano per essere fedeli a quella linea di essere rinchiusi in un’immanenza che sembra essere concepita invece che come uno spazio aperto come uno spazio chiuso da tutti i lati. Negri e Hardt ragionano secondo la lezione di Deleuze su Leibniz, per pieghe, ma restando sempre al secondo piano dell’allegoria della casa barocca che come è noto è senza finestre e appartiene ai beati, senza mai scendere nel primo piano che pur avendo piccole aperture, per Deleuze, è il piano dei dannati. Il primo piano dell’allegoria della casa barocca è tale perché è il luogo dove vivono coloro che involontariamente rinunciando al proprio chiarore e che nel farsi da parte lasciano spazio al progresso di coloro che odiano, qualcosa di simile all’uomo del risentimento di Nietzsche. In questo senso Negri e Hardt si autolimitano a un pensiero privo di esteriorità giacché secondo Leibniz “l’essenza della monade è quella di avere un fondo scuro: da esso trae ogni cosa, e niente proviene dal di fuori o va al di fuori” (Deleuze, 1988: 46) e “la monade è l’autonomia dell’interno, un interno senza esterno” (Deleuze, 1988: 47). Fedeltà ideologica che li porta a contraddizioni evidenti che ne indeboliscono anche le intuizioni più interessanti.
Non è difficile evitare questa trappola, basta non prendere troppo alla lettera Deleuze o Foucault e poterli dimenticare e ignorare ogni volta che sia necessario. Un eccellente esercizio psicogeografico è quello di scovare nelle città gli spazi del fuori ovunque si presentino. Occorrerebbe aprire un libro sulla città contemporanea al contrario di Negri e Hardt: “L’impero crolla, c’è di nuovo un fuori!”, sarebbe anche un ottimo modo per prendere le distanze dagli aspetti più agorafobici della teoria di Sloterdijk e per ribadire che la fase Indoor dell’umanità è finita, che se qualcosa deve accadere non è detto che debba accadere in uno spazio con tutte le misure di sicurezza e protezione tipiche di un’internità. Nelle città altermoderne o “altercittà” il fuori sta riprendendo a prosperare e dove prospera il fuori si moltiplicano gli eventi fuori controllo e il disordine che sono tutto ciò che davvero contribuisce a trasformarle in luoghi desiderabili.
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