Tra il 3 e il 5 di ottobre si è tenuto all'Ecole Nationale Supérieure d’Architecture Paris-Malaquais, sotto la direzione scientifica del Laboratoire Infrastructure, Architecture, Territoire (LIAT), il VII International Phd Seminar "Urbanism&Urbanization", per l'occasione ho scritto un paper che è stato pubblicato in inglese nei proceedings. Qui lo troverete disponibile in italiano. La sua importanza sta nel demistificare la teoria della globalizzazione di Sloterdijk in quanto tentativo di naturalizzare una condizione antropologica della specie ideologicamente determinata, quella della ricerca senza sosta di spazi Indoor dove riparare. La teoria agorafobica di Sloterdijk aveva probabilmente le sue ragioni negli anni '00 ma con il superamento del postmoderno e l'avvento dell'epoca delle soggettività radicanti è necessario che l'aperto torni a reclamare i suoi diritti. Per saperne di più: buona lettura! 

 

Il ruolo dei dispositivi nei divide socio-spaziali tra ricchi e poveri.

Daniele Vazquez Pizzi

La riduzione socio-spaziale del mondo

Negli anni ’70 e ’80 l’urbanista Paul Virilio sostenne che lo spazio del mondo intero si stesse restringendo a “niente” a causa di mezzi di trasporto sempre più veloci e di mezzi di trasmissione elettronici sempre più potenti e diffusi (Virilio: 1977, 1984), che stessimo andando “verso il più grande confino e la più grande incarcerazione mai vissuti dall’umanità” (Virilio: 1989). Quanto più la condizione umana avrebbe guadagnato in tempo quanto più avremmo perso il mondo, quanto più si sarebbe ridotto “lo spazio reale dell’intero mondo”. La velocità giocava contro l’estensione e la durata del mondo, il mondo sarebbe diventato troppo piccolo simbolicamente per essere abitabile confortevolmente, si trattava di un problema di ecologia politica che l’urbanista francese proponeva di tenere sotto osservazione attraverso una nuova scienza, la “dromologia”, una scienza che avrebbe studiato la velocità. La sua tesi godeva di un vasto pubblico. Si trattava di un discorso che cercava di giocare d’anticipo con i processi allora ancora in corso di globalizzazione e che individuava nell’accesso alla velocità il divide tra ricchi e poveri e l’orizzonte negativo della condizione umana. Virilio sembra riprendere alla lettera alcuni passaggi dei “Lineamenti fondamentali della critica dell’economica politica” di Karl Marx, in particolare quando scrive:  “Quanto più la produzione si basa sul valore di scambio, e quindi sullo scambio, tanto più importante diventano per essa le condizioni fisiche dello scambio – i mezzi di trasporto e di comunicazione. Il capitale, per sua natura, tende a superare ogni ostacolo spaziale. La creazione di condizioni fisiche dello scambio – ossia dei mezzi di trasporto e di comunicazione – diventa l’annullamento dello spazio per mezzo del tempo” (Marx: 1857-58, 161). Oppure nel seguente passaggio: “Mentre dunque il capitale deve tendere, da una parte, ad abbattere ogni ostacolo spaziale al traffico, ossia allo scambio, e a conquistare tutta la terra come suo mercato, dall’altra esso tende ad annullare lo spazio attraverso il tempo; ossia a ridurre al minimo il tempo che costa il movimento da un luogo all’altro” (Marx: 1857-1858, 181). Karl Marx prende in considerazione anche l’ipotesi di mezzi di trasporto e di comunicazione che possano realizzarsi in tempo reale e che permetterebbero al capitale di circolare come un perpetuum mobile: “Se dunque la circolazione non causasse nessun arresto, la sua velocità sarebbe assoluta e la sua durata = 0, ossia, se essa fosse compiuta in no time, sarebbe come se il capitale avesse potuto ricominciare il suo processo di produzione immediatamente dopo che questo era terminato” (Marx 1857-1858: 180). Eppure Virilio non ha tenuto in considerazione che per Marx raggiunto il più alto sviluppo delle forze produttive e quindi il più ricco sviluppo degli individui, tale sviluppo si presenta come decadenza se non comincia uno sviluppo su una base nuova, tuttavia oggi sappiamo che una base nuova non significa che il capitale abbia raggiunto il punto di rottura in cui rappresenterebbe esso stesso l’ultimo ostacolo per un ulteriore sviluppo, ma che cambiano i rapporti di produzione e quindi la faglia attraverso cui passa il divide tra ricchi e poveri. Molto probabilmente il capitalismo non procede dialetticamente o per evoluzioni, ma per crisi e per scosse. All’epoca c’era già chi parlava del tardo capitalismo come “troppo-tardo-capitalismo” (Bey: 1985, 1991) intendendo che il tardo capitalismo aveva oltrepassato la soglia per dirsi tale, almeno per essere considerato così come l’aveva individuato Ernest Mandel (Mandel: 1975). A ogni scossa esso apre ulteriormente o chiude l’orizzonte socio-spaziale precedente senza tuttavia abbandonarlo ma naturalizzandolo come sfondo non più disputabile, sovrapponendo ad esso un nuovo tipo di produzione dello spazio. Quando scriviamo di orizzonte socio-spaziale non solamente intendiamo con Castells che “lo spazio non è un riflesso della società, ma un’espressione di essa, dimensione fondamentale inseparabile dal generale processo di organizzazione e sviluppo sociale” (Castells 2004: 50). Ma contemporaneamente il suo rovescio che si potrebbe scrivere così: “la società non è un riflesso dello spazio, ma un’espressione di esso, dimensione fondamentale inseparabile dal generale processo di organizzazione e sviluppo spaziale”. Inoltre quando diciamo “non più disputabile” significa porre l’orizzonte socio-spaziale come una condizione alla quale non vi è più alternativa, ciò che si suole definire “TINA” (There Is No Alternative). E’ interessante constatare che nonostante i numerosi smottamenti avvenuti nelle ultime decadi tra le lotte più avanzate in Italia vi sia stata quella contro il TAV, non si tratta di una lotta di retroguardia del locale contro il globale, ma di una lotta che mette in discussione un orizzonte naturalizzato, quello per cui la velocità è una forma di ricchezza non rinunciabile e per cui si è disposti a sacrificare i territori, una lotta che al di là degli esiti ha già vinto dimostrando come tale mentalità sia ormai obsoleta in un momento in cui lentezza, durata ed estensione reale del mondo sono riscoperti come una forma di ricchezza di nuovo auspicabile. Inoltre mezzi di trasporto più veloci e telecomunicazioni più potenti hanno sì annullato lo spazio, ma in forme più articolate che non nel discorso di Virilio, esse hanno favorito la sua urbanizzazione in forme disperse. Se da una parte abbiamo una perdita simbolica dell’estensione del mondo dall’altra come contraccolpo abbiamo un insediamento materiale diffuso e disseminato sulle sue superfici, che poi uno dei driver di questa urbanizzazione diffusa sia stato anche la percezione di un mondo ridotto e quindi non confortevole da abitare è molto probabile e che il risultato sia uno spazio più omogeneo e quindi effettivamente simbolicamente e materialmente più povero e piccolo questo lo dimostra l’attuale mobilitazione per tutelare il paesaggio e ridurre il consumo di suolo. La riduzione simbolica dello spazio del mondo ha finito per provocare una scossa tale da porre le basi per un nuovo tipo di produzione dello spazio, le previsioni su una “fine della geografia” (O’Brien 1992) o degli Stati-nazione (Ohmae 1995) non erano del tutto errate, ma solo a patto che si fosse continuati su quella via, tuttavia la base socio-spaziale del mondo era destinata in breve tempo a cambiare e a riconfigurare di nuovo la condizione e le aspettative umane, la logica culturale del tardo capitalismo si avviava verso la sua fine.

La virtualizzazione socio-spaziale del mondo

Se a Virilio e a molti altri filosofi il mondo sembrava andare verso una “fine della geografia” e a ridursi a sfavore della dimensione spaziale reale del mondo durante le fasi di chiusura della mappa da parte della globalizzazione la condizione umana ha trovato a livello di massa un nuovo orizzonte nel cyberspazio, un orizzonte che sembrava doverne di nuovo aumentarne virtualmente l’estensione. L’orizzonte negativo intravisto da Virilio veniva schivato attraverso la produzione di un nuovo tipo di spazio, il mondo ridotto da trasporti ultrarapidi e telecomunicazioni veniva aumentato virtualmente. In questo passaggio il divide tra ricchi e poveri divenne l’accesso alle ICT. Le retoriche dell’epoca garantivano a chi accedeva a questo mondo virtuale emergente nuove forme di libertà correlate con giochi di ruolo e multi-identitari che questo avrebbe permesso. Le ICT sembravano ripristinare il regno dell’anonimato e della privacy che la città fisica garantiva sempre meno, pur essendo state queste sue prerogative nella modernità (Boyer 1996). L’assenza di prossimità da condizione umana da ricercare attraverso la fuga dalla città tradizionale o la riconversione degli agricoltori e dei loro spazi abitativi in urbanizzati diviene un’ideologia del mondo auspicabile per tutti e immediatamente disponibile anche all’interno delle città tradizionali per mezzo dello spazio digitale. Le retoriche dell’epoca invitano a sostituire in parte o del tutto la vita associata reale con una virtuale in cui ciascuno potesse essere ciò che aveva sempre sognato di diventare. Tuttavia man mano che il divide nell’accesso alle ICT si assottigliava quelle retoriche furono soppiantate e si mostrò chiaramente il lato oscuro di questa estensione spaziale virtuale: società del controllo, paradigma securitario e forme di governo che fanno sempre più uso di dispositivi d’emergenza ed eccezionali. Riteniamo sia possibile ipotizzare che il modello della governamentalità (Foucault 2004) che ereditiamo da quel periodo sia dipeso direttamente dall’inadeguatezza delle precedenti forme di governo in una situazione urbana spaziale dispersa da una parte e dalla genesi di una cosmopoli (Toulmin 1990), città globale (Sassen 1991) o postmetropolis (Soja 1999) caratterizzata da contiguità spaziali virtuali e non più solamente fisiche, in entrambi i casi si trattava di una situazione in cui le relazioni sociali e l’economia stessa (che è sempre anche un rapporto sociale) avvenivano in assenza di prossimità. In una situazione spaziale dispersa, sia in termini spaziali che digitali, il rapporto tra individuo e stato o le istituzioni pubbliche perde di operatività, ma proprio quegli stessi dispositivi che avevano permesso, ad esempio, all’urbanizzazione diffusa di divenire città e alle diverse località di connettersi in un unico spazio di contiguità virtuali globali si mutavano ora in strumenti di governo e gestione della popolazione di tipo nuovo. Inoltre lungo le reti della città diffusa matura (Indovina: 1990) proprio a causa dell’inadeguatezza delle precedenti forme di governo e per la mancanza di spazi pubblici veri e propri è stata necessaria una continua mobilitazione della società civile negli spazi microfisici della vita quotidiana per garantire la riproduzione della vita associata stessa in sicurezza. Questa mobilitazione ha preso molte forme, di resistenza o populistiche, in ogni caso ha sancito una crisi delle istituzioni pubbliche democratiche. Quanto all’uso di massa delle ICT, come ha scritto McLuhan proprio in un capitolo sui limiti di rottura di un sistema che finiscono per capovolgerlo: “Man mano che cominciamo a reagire in profondità alla vita sociale e ai problemi del nostro villaggio globale, diventiamo reazionari. La partecipazione, accompagnata alle nostre tecnologie istantanee, trasforma le persone socialmente più avanzate in conservatori” (McLuhan: 1964, 52). E in effetti ciò che segue è un momento di chiusura dal punto di vista socio-spaziale conservatrice e populista del mondo, da una parte processi di esclusione spaziale sempre più evidenti (Secchi: 2013), dall’altra una sociabilità che passa sempre più obbligatoriamente attraverso social network che rispetto alle potenzialità della rete precedentemente espresse sono un ritorno all’identitario, all’esibizionismo e al populismo digitale (Bartlett, Birdwell, Littler: 2011; Santoro: 2012). Il mondo nel paradigma securitario causato dall’uso di massa delle ICT non solo ora si presentava come ridotto ma obbligava a un vicinato vero e proprio di tipo nuovo, un vicinato anche con ciò che era lontano. A questo punto “Il nuovo pensiero dello spazio” si presenta come “l’insurrezione contro il mondo ridotto” (Sloterdijk: 2006,  315).

L’internalizzazione socio-spaziale del mondo

La globalizzazione alla fine degli anni ’90 arrivò a tal punto ad essere percepita come una realtà con delle ricadute immediatamente evidenti nella vita quotidiana di ciascuno che cominciarono a mobilitarsi non solo gli attivisti, ma anche i filosofi. Sprezzantemente verso le versioni sociologiche, geografiche e giornalistiche della globalizzazione, ad esempio, Sloterdijk ne ha riscritto la genesi e ne ha individuato il reale orizzonte. Dall’azzeramento dello spazio, alla sua virtualizzazione si metteva ora negli anni ’00 l’accento sulla sua “internalizzazione”. Sloterdijk descrive la globalizzazione come “lo spazio mondano interno del capitale”, “né un agorà né un mercato a cielo aperto”, ma “una serra, che ha risucchiato al suo interno tutto ciò che  prima era esterno” (Sloterdijk: 2006, 42). In questo filosofo e nei molti ricercatori che ne sviluppano le tesi sembrerebbe che la lotta dell’umanità sia sempre una lotta per conquistare uno spazio Indoor. La sua agorafobica teoria spiega tutto in termini di conflitto contro un’esternità inabitabile. Si tratta di una concezione filosofica che naturalizza ex post la condizione umana contemporanea come la condizione umana tout court. Se effettivamente la stessa città diffusa per certi aspetti non è che la propagazione dell’Indoor alle campagne che avevano sempre rappresentato lo spazio aperto per i suoi abitanti e per gli stessi abitanti delle città tradizionali, ciò significa piuttosto un cambiamento di relazione con lo spazio aperto che non un argomento a favore del fatto che l’homo sapiens abbia sempre evitato l’esternità. Per Sloterdijk “Una profonda caratteristica dell’esteriorità è che essa non è ‘già sempre’ aperta nella modalità dell’abitare in essa- piuttosto la possibilità dell’apertura viene messa al riparo di un’anticipazione proiettiva, da cui consegue che non sia più tanto evidente la differenza tra abitare e sfruttare”. (Sloterdijk: 2006, 152). Argomentazione che spinge il filosofo tedesco ad affermare che “l’abitare è la madre di tutte le asimmetrie” (Sloterdijk: 2006, 317). Non c’è dubbio che le versioni economiciste del conflitto sociale ne abbiano sempre sottovalutato la dimensione spaziale, tuttavia ciò non significa che sia l’abitare la causa delle asimmetrie, ma semmai il risultato di una distribuzione ingiusta nello spazio amministrata con la forza per sancire spazialmente una condizione che era allo stesso tempo sociale, quella della divisione tra coloro che avevano i mezzi per affermarsi come classe agiata e coloro che non li avevano. Mezzi che hanno sempre avuto a che fare con la forza, come nell’originaria dialettica tra commons e enclosures, che sembra finalmente legittimamente riaprirsi. Secchi riprendendo le tesi di Soja esposte in “Seeking Spatial Justice” (Soja: 2007) scrive: “ricca è anche la persona, la famiglia o il gruppo che dispone di un adeguato capitale spaziale, vive cioè in parti di città e del territorio dotate di requisiti che ne facilitano l’inserimento nella vita sociale, culturale, professionale e politica come nelle attività a lei più consone” (Secchi: 2013, 16). Contrariamente a ciò che i filosofi come Sloterdijk sostengono l’uomo ha sempre cercato di esplorare e popolare l’aperto e di disseminarsi sui territori, l’Indoor è un ripiegamento davanti alla percezione di rischi e pericoli, reali o immaginari, effettivi o costruiti dalla propaganda (Bauman: 2003), e non la condizione naturale della specie. Tuttavia in questo passaggio l’orizzonte spaziale effettivamente si richiude di nuovo e il divide tra ricchi e poveri passa tra coloro che possono permettersi di essere sempre all’interno di un “Palazzo di cristallo” (Dostojevskij: 1864) o in un Passage (Benjamin: 1955) e coloro che sono costretti al disagio di abitare l’esternità. Sloterdijk scrive: “L’espressione ‘mondo globalizzato’ riguarda esclusivamente l’installazione dinamica che funge da involucro per il ‘mondo della vita’ di quella frazione di umanità costituita dai detentori di potere d’acquisto” (Sloterdijk: 2005, 250). Il mondo prima era destinato a ridursi, poi una volta ridotto a virtualizzarsi, infine una volta virtualizzato a chiudersi su se stesso, ma ogni volta l’aperto reclama i propri diritti e se non è errato ritenere che vi sia stato un tale ripiegamento verso gli Interni e che vi sia stata la genesi di un modello di mobilità che permette di non abbandonarli mai, tuttavia oggi la tecnica permette di ripopolare l’aperto proprio grazie ai nuovi dispositivi mobili. Lo stesso Sloterdijk intravede la prossima scossa: “Il compito da assolvere in una prospettiva esistenziale è il seguente: mobilizzazione degli interni – che equivale a una quadratura del cerchio della vita” (Sloterdijk: 2005, 166). Non si tratta di un’idea nuova, la si ritrova nei situazionisti (Ivain: 1953) e più tardi in Lefebvre quando parla di una “mobilità degli spazi privati” che propose di chiamare spazio “situazionale” o “relazionale” (Lefebvre: 1974, 348). Sloterdijk è un post-heideggeriano che alla “radura dell’essere” come condizione di verità dell’uomo ha sostituito spietatamente la “domesticità” condannando la condizione umana contemporanea a una condizione addomesticata senza speranza di eccedersi. L’unica via di fuga che riesce a intravedere è il prodotto del suo tentativo di non smentire del tutto Heidegger: “Le culture della presenza devono prima o poi tornare rafforzate a far valere i loro diritti contro la cultura della rappresentazione e della memoria. L’esperienza di ciò che è esteso opporrà resistenza agli effetti delle compressioni, delle abbreviazioni e degli sguardi a volo d’uccello”. (Sloterdijk: 2006, 315). Non abbiamo dubbi che sia così, ma non perché le argomentazioni di Heidegger ci convincano, piuttosto perché le culture della presenza hanno sempre accompagnato ogni scossa della logica culturale del tardo capitalismo (Jameson: 1991) al di là delle retoriche: vi sono sempre stati gruppi sociali che facevano della strada e dei ritrovi metropolitani più interstiziali i loro luoghi d’elezione per l’incontro. Mentre il mondo si rimpiccioliva le culture giovanili metropolitane e le comunità diasporiche creavano mondi immaginati che avevano i loro ritrovi dove rafforzare la propria differenza, mentre il mondo si virtualizzava i più avanzati nell’uso delle ICT, squatter, hacker e nerd avevano i loro luoghi e le loro feste dove incontrarsi, scambiarsi face to face informazioni e vivere momenti di convivialità, durante la fase Indoor si riscopre la psicogeografia, il camminare, il gusto per la lentezza all’aperto e le sortite temporanee, artistiche e politiche, nell’agorà disertata e militarizzata divengono pratiche di resistenza molto diffuse. Come nel caso della vita mondana Indoor a ogni passaggio si tratta sempre di una soluzione che produce un orizzonte socio-spaziale senza disfarsi del tutto di quello precedente. Così se effettivamente negli anni’00 “la tendenza caratteristica del tempo era quella di rendere l’insieme di natura e cultura un affare indoor” (Sloterdijk 2006: 221), un momento in cui non a caso l’ordinario statuto dello spazio pubblico come spazio aperto e inclusivo è messo in crisi, oggi l’orizzonte spaziale si apre di nuovo grazie a un aumento di realtà.  Per aumento di realtà parliamo della realtà aumentata ma anche della metafora o della filosofia che rappresenta e che ci suggerisce la fase cui stiamo accedendo.

L’aumento di realtà socio-spaziale del mondo

Non scomparendo la precedente condizione umana dispositivi mobili come gli smartphone e i tablet permettono non solo negli spazi interni di avere sempre a disposizione uno spazio esterno come nella fase Indoor descritta da Sloterdijk, ma nello spazio esterno di avere sempre a disposizione una “visuale interna” che introduce a un aumento di realtà che protegge dall’inabitabilità di tale spazio e lo rende di nuovo popolabile, che permette di passare dall’intermittenza di questo popolamento tipica dei ceti medi precarizzati (Bianchetti: 2011), da quelle scorrerie tattiche in un territorio percepito come dominato strategicamente da un nemico di cui scrive de Certeau (de Certeau: 1980), a un più confortevole soffermarsi tipico di quelle nuove generazioni che sono state chiamate “radicanti” dal critico d’arte francese Bourriaud (Bourriaud: 2009). Nella fase Indoor le tradizionali forme di popolamento dello spazio pubblico cambiano, i privilegiati disertano lo spazio pubblico e si muovono in un contesto che permette loro di non abbandonare mai uno spazio privato o di transitare lo spazio pubblico con tutte le garanzie di uno spazio privato. Tutto il discorso sui non luoghi è un discorso sulla mobilità in spazi pubblici o privati che garantiscano sempre le sicurezze dell’internità spaziale della vita associata. In questa situazione sono gli artisti, gli attivisti, le comunità digitali più motivate e i meno privilegiati ad utilizzare intensivamente gli spazi pubblici. Per quanto riguarda artisti e comunità digitali si tratta sempre di un utilizzo intensivo, di breve durata e intermittente, si appare improvvisamente, si mette in gioco un’azione e si scompare così come si era arrivati. Queste sono le forme più avanzate di uso dello spazio pubblico da parte dei ceti medi precarizzati, perché quelle ordinarie avvengono con il pretesto del consumo, del turismo o della passeggiata in zone sufficientemente controllate e protette. Sono i popolamenti fuori controllo dei migranti, delle sottoculture metropolitane, degli attivisti che indicano le novità più interessanti e sono i loro usi impropri degli spazi che ne rivelano la sottoutilizzazione. Se sono i giovani dei ceti medi precarizzati che realizzano interventi di tipo intermittente e provvisorio, i ceti meno benestanti e i gruppi più attivisti continuano ad affrontare lo spazio pubblico con più forti motivazioni, dovendo spesso negoziare o entrare in conflitto con i dispositivi spaziali di controllo e protezione. Vi è una distinzione da fare nella concezione dello spazio pubblico, quella tra piazza e strada. Stare in piazza significa sempre un popolamento, mentre stare in strada implica sempre uno stile di vita. Coloro che sono cresciuti in una condizione Indoor e hanno ricominciato a popolare le piazze e ritrovare la strada come il luogo di uno stile di vita appartengono a quel nuovo soggetto che Bourriaud vede come il protagonista di una nuova epoca dopo la logica culturale del tardo capitalismo e che definisce “altermodernità”, che non procederebbe più linearmente come la modernità né per loops come il postmoderno (Bourriaud: 2009). Un soggetto “radicante” è disposto alla mobilità ma anche a mettere temporaneamente radici, senza mai radicarsi del tutto in una comunità o in una famiglia. La metafora del radicante è alternativa sia a quella dell’albero che a quella del rizoma, differentemente dalla prima esprime una disposizione alla mobilità Outdoor e fuori controllo prima tipica solo di soggettività molto motivate e differentemente dal rizoma può mettere radici e non fa a meno di un “soggetto”, ovvero ha una disposizione a progettare, seppur a breve termine, le proprie traiettorie in un modo autodiretto e non a considerarsi il risultato di processi di etero-soggettivazione. Come è avvenuto questo passaggio in una generazione cresciuta nel mondo Indoor descritto da Sloterdijk? Per mezzo senza dubbio di un aumento di realtà, per mezzo di nuovi dispositivi che perforano da tutte le parti il “Palazzo di Cristallo” e permettono di avere una “visuale interna” dello spazio reale Outdoor, di percepirlo e muoversi in esso diversamente, come fossero su un altro livello di realtà rispetto a chi non accede a questo incremento di reale. Il divide tra ricchi e poveri di oggi è tra coloro che accedono alle forme più avanzate  di tali applicazioni e coloro che rimangono invece inchiodati a quello che abbiamo chiamato “dispositivo-Baudrillard”, ovvero la condizione di indecidibilità tra reale e virtuale (Baudrillard: 1981) tipica della logica culturale del tardo capitalismo. Il “ritorno del reale” (Foster: 1996) o il “Nuovo Realismo” (Ferraris 2012; Ferraris, Eco, De Caro et alia: 2012), il superamento del postmoderno e il ripristino della possibilità di poter discernere tra reale e virtuale non sarebbe una novità se oggi tale riconoscimento non dovesse passare obbligatoriamente attraverso un dispositivo mobile. Anche le sperimentazioni artistiche su una “realtà diminuita” che permetterebbe di eliminare dalla visuale parti della realtà, oggetti, spazi e persone, attraverso un dispositivo è un potere che dimostra un grado di decidibilità sul reale cui possono accedere solo chi può manipolare tale “spazio reale aumentato”. Tale “spazio reale aumentato” non è che un ulteriore sviluppo della precedente realtà virtuale, ciò che cambia con i dispositivi mobili è la possibilità di sovrapposizione tra spazio reale e virtuale senza che ciascuno si debba isolare dallo spazio reale, lo spazio reale diviene nuovamente popolabile per mezzo di questa sovrapposizione. Quando usiamo la parola dispositivo ci riferiamo a una versione del concetto più concreta di quella che si ritrova in Foucault (Foucault: 1971) o in Deleuze (Deleuze: 1987) , secondo la lezione di Agamben dispositivo è “letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi” (Agamben 2006: 22). Agamben di seguito fa degli esempi concreti: “Non soltanto, quindi, le prigioni, i manicomi, il Panopticon, le scuole, la confessione, le fabbriche, le discipline, la misure giuridiche ecc., la cui connessione col potere è in un certo senso evidente, ma anche la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la navigazione, i computers, i telefoni cellulari e – perché no – il linguaggio stesso, che è forse il più antico dei dispositivi” (Agamben 2006: 22). La logica culturale che si lascia alle spalle il tardo capitalismo e quindi il postmoderno è - utilizzando un linguaggio da molti ritenuto obsoleto ma che riteniamo invece avere ancora un grande valore euristico - una sovrastruttura determinata dall’evoluzione dei dispositivi economici, tecnici e spaziali generati nei rispettivi campi di sapere-potere. In questo senso smartphone, tablet, google glass sono invenzioni tecniche che in quanto dispositivi hanno già parzialmente incorporata non solo la nuova logica culturale emergente ma anche lo spazio di monovra di una condizione antropologica del tutto differente da quella della fase Indoor.  Tuttavia saranno gli usi imprevisti che se ne potranno fare che decideranno se saranno anche luoghi in cui si produrranno soggettività e azioni nuove. La realtà aumentata lascia indietro chi ancora ritiene un privilegio la condizione di vita Indoor tipico delle gated communities, si tratta di un nuovo tipo di produzione dello spazio che esclude chi ritiene ancora che la posta sia garantire l’uniformità e la sicurezza attraverso uno spazio esclusivo che tenga a distanza gli abitanti dell’esternità, mentre questi sempre più attraverso migrazioni di massa e un’alta capacità di adattamento accedono parzialmente o del tutto ai Palazzi di Cristallo. La vita indoor sarà sempre più una forma di abitare per marginali, ricchi o poveri, tuttavia non abbiamo dubbi che i primi ad accorgersene siano proprio coloro che per primi hanno avuto accesso a questa particolare forma di privilegio che era l’Indoor. I ricchi molto spesso sono coloro che per primi hanno i mezzi per riallocarsi in una nuova posizione favorevole alle nuove forme di capitalizzazione.

Next step: l’opacità socio-spaziale

E’ prevedibile che la nuova asimmetria nei prossimi anni si giocherà tutta sulla trasparenza, la realtà aumentata, sia tecnicamente sia filosoficamente rende troppo trasparenti luoghi e persone, il divide tra ricchi e poveri che si approssima sarà tra coloro che non potranno opacizzare i propri luoghi e se stessi e coloro che potranno. Il prossimo orizzonte prevedibilmente sarà la restituzione dell’opacità, un nuovo tipo di chiusura, in quanto la trasparenza diverrà con evidenza una nuova forma di inquinamento ecologico e mentale (Bateson 1972), dapprima come un lusso di pochi e poi come un diritto di tutti. L’asimmetria nello spazio reale aumentato consisterà in termini di informazioni nel poter vedere nello spazio pubblico senza poter essere visti, i meno privilegiati potranno essere visti senza poter a loro volta vedere. Questa situazione non potrà durare a lungo, l’opacità si democratizzerà e sarà l’avvento della città opaca.

Aprile 2013

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