Questo post, la quarta parte del saggio "La produzione dello spazio immaginario" scritto nel 2005, era in origine un "intermezzo" diviso in due capitoli che precedevano quelli sulla metodologia artistica dello scultore galiziano Nito Contreras. Il primo si soffermava sulle anticipazioni della critica dell'arte negli anni '80, sui discorsi sulla scultura che allora hanno preparato il terreno per poterla dire oggi una particolare modalità di produzione dello spazio, discorsi limitati da una parte ancora da un orizzonte teorico tradizionale e dall'altra dai negoziati con le istituzioni che imponevano loro un linguaggio pieno di categorie burocratiche e obsolete. Il secondo capitolo è una breve genealogia del concetto di "primitivo" nella critica dell'arte che ne rende evidente l'importazione dal campo dell'antropologia in un momento in cui esso era già in disuso da tempo. Il concetto di "primitivo" nell'arte è ancora utilizzabile a patto che se ne riconosca lo statuto di invenzione della critica, il valore ludico, l'allusione a un immaginario del tutto contemporaneo e alle dinamiche che producono il mondo per mezzo della produzione di spazio. Le argomentazioni di questo "intermezzo" sono del tutto attuali pur mancando ancora della consapevolezza che oggi abbiamo della relazione tra la genesi dei territori e i commons. Buona lettura!

Manolo Paz

Anticipazioni negli anni ’80

Alla fine degli anni ’80 vi sono state alcune esperienze artistiche e intellettuali che hanno tentato di restituire alla scultura il suo senso di produzione di spazio. Tuttavia, o perché erano ancora all’interno di un orizzonte teorico che limitava la portata del loro discorso del tutto innovativo o perché i negoziati con le istituzioni imponevano un linguaggio secondo categorie obsolete, il tentativo non riuscì ad evolversi in una pratica artistica e sociale concreta.

La produzione di spazio che la scultura rappresenta era colta, ma ancora attraverso il concetto riduttivo di “installazione”, come se la scultura continuasse ad essere un oggetto estraneo che avrebbe interferito con lo spazio circostante. Non a caso si parla con insistenza del valore estetico dell’interferenza: l’oggetto artistico è ancora un corpo estraneo che disturba, che reclama attenzione, che impone una fruizione ottica e contemplativa.

Questo discorso ancora non era giunto al punto di considerare che la scultura per divenire nodo della rete urbana debba rinunciare a qualsiasi pretesa di essere oggetto di contemplazione, cosa che non significa la rinuncia alla diffusione del meraviglioso nella vita quotidiana ma che piuttosto questa diffusione possa avvenire solo come fruizione tattica, attraverso la disattenzione e l’abitudine.

Il concetto di “installazione” però era talmente approfondito da arrivare quasi fino al punto di rivelare la produzione di spazio della scultura, solo il concetto di “interferenza” teneva ancora inchiodato il discorso alla categorie classiche dell’arte.

“Interferenza” è un concetto che ha una necessaria continuità con quello di “esposizione”, la città da questo punto di vista diverrebbe nient’altro che un museo o una galleria a cielo aperto dove esporre sculture-monumento.

A nostro avviso non si può ricondurre lo spazio urbano all’ambito della concezione ristretta del mondo dell’arte, ma piuttosto è il discorso dell’arte che dovrebbe confluire nel concetto globale di urbano. Henri Lefebvre con molto anticipo vide nell’ambiente urbano, il terreno globale sui cui si sarebbero giocati tutti i discorsi della società a venire, da quello artistico a quello politico, da quello antropologico a quello sociologico. Noi la pensiamo allo stesso modo.

Nonostante questo, si intuiva già, a partire da riflessioni antropologiche, che un sistema di sculture, una rete di sculture in una città, non avrebbe avuto solo una fruizione estetica, un sistema del genere si sarebbe configurato esso stesso come ambiente. Non solo. In quanto ambiente, avrebbe prodotto relazioni, reti sociali, avrebbe avuto un “ruolo d’uso”, avrebbe avuto anche una fruizione tattica.

Si era su una “borderline”, su una soglia dell’esperienza creativa su cui pesava ancora l’eredità della tradizione e che comunque già guardava lontano.

L’eredità della tradizione impose che si ricercasse il senso originario della scultura in quanto spazio recuperandone il ruolo di monumento. Si trattava di elaborare una nuova concezione di monumento per permettere alla scultura di accedere alla rete urbana. Questo discorso aveva un senso solo nella misura in cui apriva un terreno di negoziati con le istituzioni, ma questo terreno limitava la novità del discorso, la scultura veniva, dopo averne esplorato tutte le potenzialità, di nuovo ricondotta ad un ruolo d’uso obsoleto.

Nondimeno si prendeva in considerazione un ruolo d’uso per la scultura e non solo un valore contemplativo. L’epoca era tale da non permettere ancora al discorso di abbandonare il concetto di monumento.

Comunque sia molte tematiche furono anticipate.

In primo luogo, che la scultura non ha senso come spazio privato, ma solamente come spazio pubblico. Il senso di una scultura si completa solo a partire dalla sua relazione con gli spazi aperti e accessibili a chiunque.

In secondo luogo, ne derivava che il suo valore estetico non poteva essere che inquadrato in una prospettiva antropologica e urbanistica. In quanto la scultura ci avrebbe riportato così all’esperienza primitiva dello spazio, alle pratiche dello spazio che hanno prodotto il mondo, in quanto momento di creazione dei sistemi di orientamento e allo stesso tempo dell’esperienza umana.

In terzo luogo, che la scultura sarebbe divenuta un luogo di relazioni, un luogo da abitare.

In quarto luogo, che la scultura di conseguenza non occupa uno spazio, ma lo qualifica. In quest’ultimo caso siamo solo a pochi passi da una concezione della scultura come produzione di spazio.

Nell’88 Andrea del Guercio scriveva: “La scultura per essere realmente se stessa necessita infatti di una installazione che nella più gran parte dei casi avviene in una piazza od in una zona verde e preferibilmente frequentata da un pubblico numeroso; una volta collocata, l’opera inizia ad interagire con lo spazio e con gli uomini acquisendo un ruolo d’uso. La struttura formale dell’opera in particolar modo rispetto al tema trattato è alla base di interrelazioni ambientali, paesaggistiche, architettoniche ed urbanistiche, e quindi socio-culturali in fase di pubblica fruizione, sia culturale che d’uso”.

Si tentò un recupero del concetto originario, antropologico, di installazione: “Un recupero originario di significato fondato sulla constatazione che un qualsiasi dato reale, un albero, una brano di roccia, un animale installandosi su un territorio promuove delle relazioni, ed influenza lo ‘stato originario’ fino a causarne un ‘nuovo stato’. Le interrelazioni possono essere casuali o determinate, ma in ogni caso fanno parte di un ‘progetto’ coordinato da leggi decifrabili e non. L’uomo in particolare, e sin dalla sua apparizione e lungo la sua evoluzione, vive un constante stato progettuale ed ogni sua installazione risulta precaria in quanto rinnovabile nel suo significato e nel suo stato d’uso. La complessità dei rapporti tra l’uomo installato e tutto ciò che lo circonda è l’affascinante materia base della cultura artistica contemporanea e della scultura in termini più evidenti”

La scultura qualifica lo spazio non lo occupa. Alessandro Pitré scrive: “Se lo spazio è la dimensione preferenziale di svolgimento dell’opera, non possiamo quindi pensare che questa semplicemente lo occupi perché, invece lo funzionalizza per quelli che sono i suoi bisogni. Lo stesso intendersi dell’opera qualifica lo spazio quale spazio-limite se scultura monumentale di blocco, o come spazio-ambiente se superficie di dispiegamento e di interferenza”.

La scultura come spazio da abitare, da fruire tatticamente, come dispiegamento di relazioni, siamo già a questo punto: “Relazioni, quindi, e Funzioni all’interno di un percorso che riscopre, reinventa, la città e che già in questo si apre al sociale. Sculture come segni che, al proprio apparire, determinano un percorso e non, quindi vi prendono posto; segni che si addentrano nella città vecchia, reinventandone gli spazi e ponendosi in relazione, a volte conflittuale, spesso di complicità, con quel fruitore particolarissimo che è l’abitante abituale della piazza, del vicolo. Una sorta di valore d’uso traslato, come scatto interattivo e di ‘affetto’. Di tale apertura, che socialmente reinvesta tanto i luoghi quanto i tempi ed i modi della fruizione e con ciò le possibilità stesse del fare arte, ci deve interessare l’origine storicamente fisica, strutturale, dell’opera al proprio spazio che non è più limite del blocco monumentale, ma sua area di dispiegamento”.

Nell’89 Andrea del Guercio precisava che si tratta di una nuova concezione del monumento in quanto spazio abitabile: “non sarà il monumento inteso quale manufatto mono-blocco, segno tridimensionale costruito su se stesso, ma monumento con caratteristiche di habitat, strutturalmente inserito tra le componenti e le funzioni del territorio”.

Il concetto di primitivo

Il nostro discorso è in controtendenza rispetto a quello che si suole fare oggi sullo spazio, a noi non interessa l’azzeramento dello spazio attraverso le reti telematiche, i trasporti ad alta velocità, i flussi globali di merci e persone, l’esposizione mediatica degli eventi. Non c’interessa prendere la sparizione dei luoghi, i non luoghi, come prefigurazione di uno spazio altro o della futura società urbana.

In questi ultimi quindici anni si è scritto molto dello spazio in questi termini, e sarebbe interessante arrivare a fare una classificazione topografica dello spazio giocando con queste teorie.

Utopie, eterotopie, isotopie, distopie, atopie, motopie, ma non vogliamo fare nostro questo discorso in fondo effimero, il nostro è un discorso allo stesso tempo primitivo e innovativo, a noi interessano i luoghi tout court, come si producono e come si disfanno.

Non si tratta di un discorso di retroguardia a difesa del locale contro il globale, tutt’altro, poiché i luoghi si creano non solo sul territorio concreto ma anche sui territori dei mondi immaginati dalle comunità diasporiche prodotte dalla globalizzazione.

Oggi si dice che le nuove forme di comunità - si veda ad esempio la rivista Communitas diretta da Aldo Bonomi, un laboratorio di osservazione sulle nuove comunità - si formano attraverso i flussi o nei non luoghi, si tratterebbe di comunità senza territorio. Ma non è esatto, non si possono comprendere le nuove forme di associazione se non si ridefinisce il concetto stesso di territorio.

A noi interessa non solo il luogo che resiste ai processi di globalizzazione ma anche i luoghi che il processo di globalizzazione continuamente e involontariamente genera. Perché tanto più la globalizzazione diviene intensiva quanto più genera luoghi come residui delle sue oscillazioni.

Oggi si tende a fare l’elogio della deterritorializzazione come apertura e nomadismo, e a vedere nella riterritorializzazione il processo stesso dell’identità e del fondamentalismo. In realtà deterritorializzazione e riterritorializzazione sono i due momenti di una stessa dinamica: il divenire dei territori. Se non fosse così ci troveremmo dinnanzi all’ennesima dicotomia, ad un modello ancora binario.

Deleuze-Guattari, i due autori che hanno introdotto questi concetti, hanno scritto:”il territorio non preesiste al segno qualitativo, è il segno che fa il territorio. In un territorio, le funzioni non sono prime, suppongono anzitutto un’espressività che fa territorio”.

Non si tratta di un’affermazione che parte solo da riflessioni antropologiche, ma anche etologiche. Gli animali stessi fanno territorio usando materiali espressivi come i cinguettii, da questo punto di vista l’artista è il primo uomo che fissa un confine o effettua una delimitazione, un evento che porta senza dubbio molte argomentazioni a favore dei movimenti anti-artistici. Egli produce un territorio attraverso parole, suoni, colori, forme, volumi e lo abita per primo attraverso i propri materiali espressivi. Non abita da poeta, abita in quanto è il poeta e innesca un divenire ambiguo ma con un grande futuro.

Ora non c’interessa che il passaggio successivo possa essere quello dell’appropriazione del territorio come luogo dell’identità, ma che il territorio si produca a partire da un segno artistico, da una qualità espressiva che fa territorio e che questo territorio divenga luogo di dimore. Questo territorio può essere concreto o immaginario, ciò che conta è che divenga un luogo di dimore. Quel che conta è far emergere come la scultura produca luoghi e che tanto più la scultura sarà oggetto di contemplazione quanto più sarà complice di processi di rigetto o appropriazione, mentre tanto più sarà oggetto di uso tattico e  distratto quanto più il luogo che produrrà sarà estraneo a processi identitari.

Tenteremo di chiarirlo attraverso la spiegazione di cosa intendiamo quando usiamo il concetto di primitivo in ambito artistico.

Oggi nella critica dell’arte si fa uso di un certo numero di categorie socio-antropologiche che spesso sono state già da lungo tempo superate dal discorso antropologico. Ad esempio, negli studi antropologici ormai non si usa più il termine “primitivo” per riferirsi alle culture native delle ricerche sul campo di un tempo, in quanto il termine è divenuto chiaramente carico di una concezione offensiva e razzista dell’evoluzione umana.

Chi attribuiva questo termine alle culture native che osservava sosteneva implicitamente che fossero ad uno stadio infantile e prelogico, ad un grado di civiltà inferiore rispetto allo stadio in cui ci troveremmo noi. Così studiare una cultura nativa significava implicitamente studiare come eravamo noi prima della civilizzazione. Si pensava l’evoluzione come una linea nella quale l’uomo passava attraverso diversi stadi che andavano dall’uomo primitivo all’uomo civilizzato, ora questa linea che partiva da un’origine lontana nel tempo fino ad arrivare alla nostra epoca, si ritrovava ancora presente, vivente, lontana nello spazio, nella realtà esemplare di popoli esotici.

Il termine primitivo venne usato in antropologia con molta disinvoltura fino al secondo dopoguerra, ma non ci volle molto con la decolonizzazione perché venisse sottoposto a dura critica. All’inizio cominciò ad essere, ad esempio, preceduto da un “detto” o “cosiddetto”. Così i popoli nativi erano i “cosiddetti primitivi”, fino a che il termine prese ad essere del tutto sostituito con altri e oggi è praticamente scomparso.

Sopravvive solo nel discorso antropologico dell’arte, ma su un piano meramente metaforico.

Il concetto di primitivo che nell’arte viene recuperato è proprio quello screditato, esso corrisponde al recupero nell’arte di gesti e segni infantili, arcaici, esotici, prelogici, irrazionali, ecc. che nel postmoderno si presenterebbero paradossalmente come cifra dell’attuale. Tuttavia non vi sarebbe nulla d’interessante se si trattasse solo di un recupero dell’arte primitiva, il concetto di primitivo si rivela uno strumento euristico solo diventando elemento immaginativo nell’auto-narrazione della nostra società.

Solitamente per chiarire l’uso di questo concetto in quanto cifra dell’attuale si fa seguire il termine con la parola “urbano” o “contemporaneo”. Con la parola “urbano” l’artista primitivo diventa la cifra stessa della metropoli contemporanea.

L’artista primitivo sarebbe attuale poiché egli recupererebbe il gesto infantile e arcaico non per riprendere una tradizione o difendere un’identità, ma perché con questo gesto si ribellerebbe alla storia e diverrebbe esploratore di geografie inedite.

Secondo le teorie antropologiche tradizionali il primitivo vivrebbe in un continuo presente come il mistico, e l’uomo religioso in generale. Anche nella concezione contemporanea della critica dell’arte l’artista considerato primitivo produce in un eterno presente, in una dimensione, come direbbe de Martino, metastorica, senza passato né futuro. Il suo operare avviene non sul piano della storia ma sul piano della geografia, si tratta di un operare nomadico. Egli recupererebbe il gesto infantile e arcaico in quanto segno espressivo di una mentalità prelogica che coinciderebbe con quella postlogica del postmoderno. La mentalità primitiva sarebbe attuale in quanto nel postmoderno si sarebbero configurate tutte le condizioni per una sua attualità: nell’eterno presente della metastoria, nel rifiuto del divenire non vi è spazio per l’innovazione d’avanguardia dello stile, gli stili sono contributi storicamente determinati e come tali considerati effimeri in confronto al metastile, stile generale ed eterno della metastoria.

Nella metastoria i gesti artistici di ogni epoca sono compresenti, tutto vi si mescola, la metastoria svuotata di ogni significato magico-religioso, fattasi paradossalmente percezione del tempo sociale quotidiano, diverrebbe la chiave per la comprensione della contemporaneità. Per contemporaneità non andrebbe solo inteso il nostro tempo ma il persistere contemporaneo di ogni epoca della storia sulla soglia della fine della storia.

L’eclettismo contro lo stile specifico e l’intensità contro la logica divengono i criteri guida del nomadismo, nomadismo che si fa l’unica poetica esplorabile dove non si vuole riconoscere più il tempo storico. Ora vedremo come questa applicazione della metastoria “primitiva” alla contemporaneità sia del tutto scorretta, scorretta non solo in quanto fa sopravvivere il mito della cultura primitiva creato dall’antropologia ai suoi esordi, ma scorretta due volte, in quanto fa sopravvivere anche un modello errato delle società osservate dagli antropologi come sistemi chiusi e senza storia, modello che si produsse solo perché il modello stesso dell’analisi era sincronico e produceva la realtà dei popoli che indagava a sua misura.

Dunque sintetizzando: “primitivo” nell’arte è sinonimo in primo luogo di assenza o abolizione della storia e quindi di eterno presente.

In secondo luogo, di recupero e rimescolamento degli stili di ogni epoca, soprattutto, per salvare la fragile coerenza del discorso, di quei gesti artistici che abbiano una parvenza di arcaico, infantile, irrazionale, esotico o tradizionale.

In terzo luogo essendo abolita la storia, una volta messi gli stili di ogni epoca su un piano di coesistenza, un piano che si fa territorio geografico, l’esplorazione di questo piano e quindi il nomadismo diviene la poetica par excellence.

In quarto luogo, e qui vi è l’unica discontinuità rispetto alla concezione antropologica tradizionale, l’attraversamento come unico percorso possibile in un mondo in cui identità, memorie e luoghi si fanno evanescenti.

La metastoria premoderna era il luogo dell’identità, della memoria mitica, della fondazione dei territori, la metastoria postmoderna invece si configurerebbe come il suo contrario.

Essendo considerati identità, memoria e territorio prodotti storici, la metastoria postmoderna, generata più dalla routine che dal rituale, abolendo la storia diviene momento dell’attraversamento più che del luogo, del transito più che dell’identità, dell’oblio più che della memoria, dello sradicamento più che della tradizione. Qui vi sarebbe la decisiva diversità tra mentalità prelogica e postlogica. L’abolizione della storia avviene non su un piano di trascendenza magico-religioso, ma su un piano di trascendenza spettacolare ed effimero.

Metastoria primitiva e metastoria urbana hanno questo in comune: l’abolizione della storia. Questo di diverso: per gli uni il divenire è il momento delle metamorfosi che mettono a repentaglio tradizione, identità e territori, per gli altri il divenire è il momento delle metamorfosi in cui il transito può sempre diventare tradizione, il nomadismo identità, l’attraversamento territorio.

Ma in realtà la metastoria non è fuori dalla storia, essa è una singolare modalità del divenire stesso, così come abbiamo già scritto della tradizione. Nella metastoria gesti e parole sempre uguali tendono a rallentare l’esperienza qualitativa dello scorrere del tempo, vi è un rallentamento del divenire, ma non una sua abolizione. Le società studiate dall’antropologia tradizionale sono state sempre catturate dentro un modello sincronico che le descriveva come società senza storia, questo approccio aveva senso solo in relazione alla metodologia. Società senza scrittura sono metodologicamente impossibili da studiare storiograficamente. Ma l’assenza di fonti storiografiche non significa assenza di eventi all’interno di una società. Anche quelle culture native avevano i loro eventi, il loro divenire.

Se è scorretto usare il concetto di primitivo nel senso che abbiamo discusso, la pratica artistica se ne può appropriare come strumento concettuale con la consapevolezza tuttavia che si tratta di un’invenzione. A partire da qui, a partire dalla consapevolezza che il concetto di primitivo importato dall’antropologia nell’arte è in realtà un’invenzione vera e propria, esso si potrà prestare ad essere utilizzato per costruire mondi immaginati.

Si può quindi continuare a farne un buon uso, un uso creativo. Il concetto di primitivo da questo punto di vista non è più uno strumento del discorso dell’arte ma un’allusione all’esperienza artistica tout court. Questa consapevolezza ci porta a non considerare la dimensione dell’artista un eterno presente, un’abolizione della storia in favore di una concezione spaziale piatta. Se la metastoria è un divenire, non si tratta di prendere le parti del transito, dell’attraversamento, dell’oblio, del nomadismo contro l’identità, i luoghi, la memoria e la storia, ma di inserirsi nel divenire stesso. Fare arte attraverso le metamorfosi, attraverso quel processo che per deterritorializzazione e riterritorializzazione e ancora deterritorializzazione, produce la vita associata. Lo scultore è un primitivo nel senso che abbiamo esplorato fin dall’inizio, in quanto produce spazio. L’esperienza primitiva a nostro avviso va intesa come quella dinamica che produce il mondo per mezzo della produzione dello spazio. Essa è un‘esperienza ancora di facile accesso a tutti, ma solo la consapevolezza di una metodologia la trasforma in esperienza artistica. Continueremo a chiamare questa metodologia primitiva non perché sia prelogica o infantile, senz’altro è una metodologia ludica a patto che il gioco non sia considerato come confinato esclusivamente al mondo dell’infanzia, ma perché fa riferimento al processo stesso con il quale l’uomo ha sempre prodotto il suo mondo: attraverso lo spazio, producendo e disfacendo  luoghi.

Nito Contreras e Centro di Ricerca dei Luoghi Singolari, 2005

 

Bibliografia

Gilles Deleuze – Felix Guattari F., Mille piani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1987.

Andrea B. Del Guercio, “Scultura ai Giardini o della Progettazione e Installazione”, in XLIII Esposizione Internazionale d’Arte. La Biennale di Venezia, La Biennale di Venezia/Fabbri, Venezia, 1988.

Andrea B. Del Guercio, “La scultura per la città”, in La scultura per la città, XXV Biennale D’Arte Contemporanea Città di Alatri, Alatri, 1989.

Henri Lefebvre, La produzione dello spazio, Moizzi, Milano, 1978.

Alessandro Pitré, “Città e scultura”, in La scultura per la città, XXV Biennale D’Arte Contemporanea Città di Alatri, Alatri, 1989.