Il saggio che segue va considerato una linea di sviluppo di alcune considerazioni contenute nel libro di Paola Viganò “I territori dell’urbanistica” (Officina, 2010), in particolare la prima parte “Territori concettuali”, e della discussione che si è tenuta alla Scuola di Dottorato in Urbanistica dello IUAV a seguito della presentazione del libro di Cristina Bianchetti “Il novecento è davvero finito” (Donzelli, 2011) il 21 giugno 2011. Si tratta di un contributo al potenziamento dei tool per il progetto ubano che permettono di individuare le condizioni per cui possiamo pensarci non come gli ultimi urbanisti e sociologi urbani di un’epoca ma come i primi di una nuova. Da qui la formula che abbiamo utilizzato in un articolo intitolato “Festa e catastrofe” recentemente pubblicato sul magazine Drome “Il postmodernismo è accaduto prima di noi”, invece che la classica formula “Fine del postmodernismo” o "Tramonto del postmodernismo" che viene utilizzata da più di dieci anni e che ha occupato tardivamente il dibattito italiano estivo del 2011 (cfr. Alfabeta n.14, anno II).  Il lavoro che segue è parte integrante del key-topic lanciato dalla Scuola di Dottorato in Urbanistica dello IUAV quell’anno: “Le condizioni sono cambiate”. Riteniamo, inoltre, vi siano molti elementi per pensare “la nuova questione urbana” così come proposta da Bernardo Secchi, da cui, in definitiva, siamo stati per molti versi guidati e ispirati.

consiglio operaio

IL QUADRATO SEMIOTICO DEGLI ORDINAMENTI SPAZIALI

Sulle relazioni tra il comune, il pubblico, il privato e l’intimità

Daniele Vazquez

1. Nel 1968 Algirdas Julien Greimas e François Rastier nel numero 41 della rivista French Yale Studies dedicato al gioco, tra un articolo sugli scacchi di Wimsatt e un altro sull’utopia di Holquist, formulano per la prima volta le regole del quadrato semiotico. Il loro articolo “L’interazione dei vincoli semiotici”[1] era stato preceduto due anni prima dal libro del solo Greimas “Semantica strutturale”[2] nel quale vi erano già tutti i suoi elementi costitutivi ma che ancora non erano stati formalizzati in una serie di indicazioni precise per questo tipo di schema[3]. Nel proporre un “quadrato semiotico degli ordinamenti spaziali” vorremmo immediatamente dileguare un possibile malinteso, se da una parte riteniamo che il quadrato semiotico sia un tool straordinariamente utile per organizzare i concetti e i materiali prodotti dagli studi urbani, dall’altra non vi è qui alcuna pretesa di chiarire le nuove questioni urbane per via semiotica. Nell’introduzione al loro articolo Greimas e Rastier scrivono: “Il gioco qui in questione non è da considerare come una libera attività produttiva di oggetti letterari, ma come un lungo viaggio inframmezzato da scelte obbligate che conduce, attraverso una serie di esclusioni e opzioni, rivelando fobie e euforie personali e sociali, alla costituzione di un lavoro unico e originale. Invece di analizzare un testo completo, gli autori hanno provato a vedere, partendo da nuclei di significato, da categorie di significato che sono allo stesso tempo semplici e basilari, come opera la facoltà creativa, una facoltà che, procedendo dal semplice al complesso, dal generale al particolare, si fa strada, attraverso una serie di determinismi fino all’esaltazione della libertà. E’ ovvio che, nella prima parte di questo viaggio, non c’è niente di specificamente letterario nel gioco della mente creativa, è inoltre ovvio che questa trae le sue risorse dall’insieme delle attività umane significative: il fine teorico di questo studio è quindi largamente antropologico, in aperta opposizione con la sospetta tradizione dell’umanesimo occidentale che esalta la letteratura come un dato di base. Quindi il testo che andrete a leggere, nell’illustrare un possibile approccio semiotico agli oggetti letterari è allo stesso tempo una messa in discussione del fenomeno letterario”[4]. I due autori fin dall’inizio mettono in guardia i lettori di una rivista che si occupa prevalentemente di letteratura che si tratta di un gioco della mente creativa il cui fine teorico è largamente antropologico e le cui risorse sono tratte dalle attività umane significative. Non vi è niente di specificamente letterario, è, anzi, in aperta opposizione alla sospetta tradizione dell’umanesimo occidentale che esalta la letteratura come un dato di base, è una messa in discussione del fenomeno letterario. Siamo, dunque, lontani dal considerare gli spazi di cui tratteremo come testi o narrazioni.  Il “quadrato semiotico degli ordinamenti spaziali” che stiamo per proporre non è un vuoto esercizio di semiotica né è limitabile all’ambito della scienza dei segni, si tratta, piuttosto, di uno schema socio-spaziale, uno strumento concettuale del progetto urbano che rinvia sempre a un di fuori opaco: l’esperienza effettiva dello spazio, un’antropologia dello spazio. Noi riteniamo che mai come in questa fase delle ricerche urbane vi sia stato un deficit di teoria, abbiamo moltissime informazioni sullo spazio e le pratiche urbane e non sappiamo come organizzarle. I gruppi che consapevolmente o meno, nell’ambito dell’arte pubblica o civica, dell’urbanistica, dell’architettura e della sociologia urbana sono stati influenzati, dallo “spatial turn”[5], producono una quantità impressionante di interventi sui territori e di documentazione, ma i loro discorsi fanno appello a una cassetta di attrezzi ormai spuntati. Insomma, a differenza di altri periodi in cui la teoria sembrava un alibi per non intervenire sul reale, oggi “fare qualcosa”, intervenire sul reale, sembra un alibi per non porsi la domanda sul perché lo si sta facendo. Il momento teorico è sempre molto debole e poco originale.  Alla teoria va applicata la stessa creatività che si applica alle pratiche e per farlo è possibile sempre utilizzare dei tool le cui regole ci permettano di giocare fino in fondo con i concetti. Di questi tool ve ne sono molti, in altre occasioni ci siamo occupati della “trialettica” su cui Edward Soja ha scritto un libro, una “macchina per pensare” che permette di articolare contemporaneamente tre ambiti concettuali non così diversa dal diagramma tricotomico di Melvin Webber[6]. Ci siamo fatti l’idea che spesso si parla di un tool di questo genere e lo si propone in opposizione ad altri ormai considerati vintage, obsoleti oppure addirittura controproducenti, come ad esempio la screditata dialettica hegeliana, ma non li si utilizza fino in fondo davvero. Ad esempio, non c’è traccia negli studi di Soja di un metodo trialettico, il geografo statunitense gioca sempre e solo la prima parte della partita, ovvero far saltare una dicotomia introducendo un terzo termine, ma non passa mai poi all’articolazione dei tre termini che si ritrova. In questo senso non è avanzato di un passo rispetto alle prime proposte di una “dialettica triplice dello spazio” di Henri Lefebvre[7]. Così la dicotomia socialità-storicità è fatta saltare da Soja con l’introduzione del terzo termine “spazialità”[8], ma di fatto questi tre termini non sono articolati, anche perché questo gioco concettuale portato fino in fondo (le cui regole ritroviamo in Asger Jorn[9]) lo avrebbe costretto a  prendere in considerazione oltre alle coppie spazio-società versus storia[10] e spazio-storia versus società[11] il vecchio accoppiamento storia-società versus spazio (il materialismo storico). Sociologia e Storia sono considerati con sospetto dai seguaci dello “spatial turn”, piuttosto che seguire in tutta la sua complessità e in tutti i suoi risvolti un ragionamento sullo spazio, preferiscono bloccarlo preventivamente laddove questo li porterebbe ad alcune ipotesi in cui lo spazio non è la dimensione determinante. Cattiva eredità del postmodernismo questa di bloccare ideologicamente e preventivamente la concatenazione dei concetti e i risultati di una ricerca sul campo quando non conferma la tesi dalla quale si è partiti oppure, più semplicemente, volontà di non auto-sabotare la propria disciplina di riferimento. Si possono fare vari esempi di come si articola un gioco a tre termini e quali sono i suoi benefici teorici. Il senso dell’uso di questi tool è che portano a situazioni teoriche in cui si è costretti a prendere in considerazione relazioni logiche tra i concetti e le cose che non si erano previste fin dall’inizio, come sarà più chiaro in seguito. Qui non faremo esempi di giochi concettuali a tre termini, ma a quattro, attraverso il quadrato semiotico di Greimas e Rastier. Vi sono altri esempi celebri di articolazioni concettuali a quattro termini, basti pensare al metodo filosofico di Alain Badiou proposto nell’89 nel suo “Manifesto per la filosofia” proprio per andare oltre l’impasse cui si era cacciata la filosofia dai post-strutturalisti in poi, quello dell’articolazione degli ambiti della politica, della poesia, dell’amore e del matema[12]. Su questo metodo torneremo altrove, perché ci sarebbero da dire molte cose sulla sua manomissibilità attraverso la sostituzione, ad esempio, della politica con la religione, la teologia o il divino. Possibilità che non ci sembra remota vista la grande rivalutazione della teologia per decifrare ambiti come l’economia politica o il concetto stesso di politico. E a proposito di divino non si può non pensare al saggio di Heidegger “Costruire abitare pensare”[13], dove in modo insospettabile questo nemico della tecnica mette su abilmente una macchina per pensare l’architettura e l’abitare basata su quattro termini che chiama  “i Quattro” o il Geviert “la Quadratura”: terra e cielo, i divini e i mortali. Basterebbe mettere a soqquadro questa costruzione filologica (forse proprio con un quadrato semiotico) che richiama alla memoria più la macchina mitologica di Jesi che non la tradizione poetica cui si appella per trovare modi meno frequentati  di pensare l’architettura e l’abitare, cosa che ci riproponiamo di fare in un altro contesto.  Noi abbiamo applicato il quadrato semiotico alla relazione di contrari spazio pubblico/spazio privato, abbiamo giocato fino in fondo con le sue regole e riteniamo ne sia uscito fuori uno schema molto utile per pensare la produzione dello spazio contemporaneo e la ricerca sul campo.  Quanto segue è in debito con una discussione avvenuta nella scuola di dottorato in urbanistica dello IUAV, durante la presentazione del libro “Il novecento è davvero finito” di Cristina Bianchetti, con l’autrice, Bernardo Secchi, Paola Viganò e Fabrizio Paone. E’ il risultato di un lungo ragionamento, non sappiamo se un tentativo simile sia stato già percorso, con l’unica eccezione del quadrato semiotico, molto diverso da quello che qui stiamo per presentare, che Jean-Marie Floch ha applicato alla Casa Braunschweig di Georges Baines nel 1985[14]. Non ci nascondiamo sul punto che si tratti di un tentativo di riduzione e semplificazione, si tratta pur sempre di un gioco con delle regole, lo spazio è pensato all’interno di determinati rapporti logici e siamo fin da ora d’accordo con chiunque ci dirà che i reali rapporti tra gli spazi presi in considerazione eccedano tale riduzione e siano molto più complessi. Sarebbe, però, piuttosto ridicolo rifiutarsi di giocare a scacchi (o a Risiko) con il motivo che la guerra è una cosa seria le cui regole sono molto più complesse di quelle che corrispondono a quel gioco.

2. Siamo partiti dal considerare “spazio pubblico” e “spazio privato” la coppia di termini opposti o contrari del quadrato. Il termine s1 sarà così lo spazio pubblico e il termine s2 lo spazio privato, abbiamo così il seguente asse semantico: 

spazio pubblico(s1) < ———————-> spazio privato(s2)

Sia il termine s1 che il termine s2 possono contrarre separatamente una ulteriore relazione, stavolta non basata sulla contrarietà ma sulla contraddizione. Il termine s1 avrà come suo termine contradditorio s1 e il termine s2 avrà come suo termine contradditorio s2. Ipotizziamo che il termine s1 sia lo “spazio intimo” che funziona, dunque, come spazio genericamente non-pubblico e che il termine s2  sia lo “spazio sociale” che funziona, dunque, come spazio genericamente non-privato.

 

spazio pubblico(s1) < ———————-> spazio privato(s2)

                                                         X  

spazio sociale(s2)                                        spazio intimo(s1)                                       

spazio non-privato                                          spazio non-pubblico

Che spazio pubblico e spazio privato siano contrari, che rappresentino una dicotomia originaria del mondo civilizzato appare auto-evidente ed è confermato da molta letteratura tradizionale sull’argomento. Tuttavia, questa relazione di contrari è giustificata solo se si risale fino al modello della polis greca e della res publica romana, percorso genealogico che molti autori occidentali hanno preso in considerazione per trattare l’argomento.  In realtà, sia in altre culture che in epoche precedenti le cose stavano del tutto diversamente, e lo sono anche nell’organizzazione dello spazio contemporaneo. Se nella polis la sfera privata coincideva con lo spazio domestico, spazio della necessità e della riproduzione della vita, intese come lavoro, gestione economica della famiglia e riproduzione della specie, nella modernità lo spazio pubblico ha assimilato man mano alcune sue fondamentali prerogative: si pensi alla nascita dell’economia politica[15].  D’altra parte il pubblico, lo spazio pubblico borghese, può essere definito in prima battuta “la sfera dei privati riuniti come pubblico”[16]. La relazione tra spazio pubblico e spazio privato nella modernità è molto diversa da quella che ritroviamo nella polis o nella res publica romana anche se il primo caso ha sempre preso a modello questi ultimi due. Ad ogni modo, si tratta di contrari che possono coesistere e non di due sfere che si contraddicono, inoltre si contraddistinguono come due spazi in linea di principio definiti e separati.  Per Habermas la sfera pubblica, attraverso un processo iniziato fin dal XVI secolo appare sempre di più  sinonimo di “statuale”, in questo senso va intesa la relazione contraddittoria tra spazio pubblico e spazio intimo. Lo statuale che si prendesse carico dello spazio intimo lo distruggerebbe, la stessa possibilità dello spazio intimo implica l’assenza completa nei suoi domini dei poteri pubblici, lo spazio intimo è autenticamente presente solo attraverso una separazione incondizionata dal mondo dell’apparire all’altro o dalla possibilità che l’altro vi appaia come coloro che possono vedere, ascoltare, giudicare e interferire. Solo in certe utopie tradizionali o, negativamente, nelle distopie della fantascienza è possibile immaginare che i poteri pubblici amministrino il mondo dei sentimenti e delle emozioni che si provano in una relazione passionale tra amanti, del profondo rapporto affettivo con certe cose del tutto sottratte al loro significato mondano o del dolore incomunicabile di un lutto. Ovviamente, i sentimenti e i rapporti affettivi con persone e cose di uomini e donne pubblici hanno, in minor o maggior misura, valore pubblico e solo uomini e donne che si sono visti privare della loro vita intima per via del loro ruolo pubblico e la loro inadeguatezza a condurre tale stile di vita potrebbe condurli a elevare alla dimensione politica pubblica sentimenti come l’amore, il dolore o l’odio – s’immagini un partito che abbia nel suo programma l’amore o finanche un ministero che si occupi delle relazioni sentimentali e possa giudicare sull’opportunità o meno di tali relazioni -, insomma cose impensabili nel nostro mondo. Se dovessero accadere non è perché i due termini s1 e s1 non siano contradditori, ma perché, evidentemente, contrariamente alla tradizione aristotelica, da sempre e mai come oggi, in un mondo sopravvissuto al postmodernismo ma che ne ha trattenute le regole paralogiche, relazioni  logiche tra ambiti contraddittori sono sempre possibili: il biopotere o la biopolitica sono esempi di potere o di politica che combinano insieme termini originariamente contradditori.

3. A questo punto individuati i termini dell’asse semantico e, per negazione, i loro termini contradditori è possibile individuare altri tipi di relazioni oltre a quelli fin qui esaminati. Iniziamo col dire che mentre lo spazio pubblico presuppone sempre uno spazio sociale in quanto spazio non-privato, quest’ultimo tuttavia non necessariamente è sempre uno spazio pubblico. Così come lo spazio privato presuppone sempre uno spazio intimo in quanto spazio non-pubblico, quest’ultimo tuttavia non necessariamente é sempre uno spazio privato. Per chiarire ricorreremo a un classico esempio di logica, se nero presuppone “non-bianco” non sempre “non-bianco” corrisponde a nero, se bianco presuppone “non-nero” non sempre “non-nero” corrisponde a bianco, tuttavia “non-bianco” implica nero e “non-nero” implica bianco. Qui stiamo entrando progressivamente in una sfera di relazioni logiche contro-intuitive e non auto-evidenti. Ad esempio, nell’esperienza di ciascuno lo spazio pubblico non è percepito immediatamente anche come uno spazio sociale, anzi molto spesso uno spazio pubblico è perfettamente immaginabile come del tutto inadeguato al dispiegamento dell’autentica socialità. Ma questo stato di cose è dovuto a un graduale svuotamento delle sue prerogative originarie, da una parte dovuto a un’assimilazione sempre più manifesta del pubblico all’amministrazione statuale e dall’altra a un’amministrazione pubblica sempre più disciplinata secondo le regole del diritto privato. Questi due movimenti hanno ridotto lo spazio pubblico a una rappresentazione o, nel migliore dei casi,  a un momento di mediazione con lo spazio sociale che presupponeva, ciò che ancora di sociale trattiene si è ridotto radicalmente tanto che i cittadini che vi potrebbero esercitare le proprie relazioni, vi rinunciano spontaneamente, vanno alla ricerca di spazi altri e preferiscono intrattenersi in forme genericamente non-private. D’altronde la nascita dello spazio pubblico non sarebbe mai stata possibile se non vi fosse stato un sistema di relazioni che già fosse uno spazio sociale alla ricerca di un luogo in cui esercitare liberamente l’opinione, il dialogo, la disputa, la decisione. Lo spazio pubblico è proprio uno spazio sociale organizzato per esercitare queste prerogative, in questo senso non può esistere democrazia senza uno spazio pubblico e si può giudicare la forza di una democrazia dallo stato del suo spazio pubblico. Spesso questo passaggio è avvenuto a danno di qualcuno, sottraendo quelle prerogative al sovrano o al capitalista che le esercitava in un ambito ristretto, in via esclusiva, non democratica e non-pubblica. Lo svuotamento dello spazio pubblico non può avvenire illimitatamente, quando questo non potrà più presupporre uno spazio sociale, nemmeno in forma di rappresentazione, non sarà più definibile come pubblico, ovvero l’opinione, il dialogo, la disputa e la decisione non saranno più esercitate dai cittadini per organizzare la presenza della propria socialità nello spazio, queste prerogative saranno sottratte con un contro-movimento alla società e, di nuovo, dislocate in un luogo esclusivo e non trasparente in cui quella non potrà più avere libero accesso. Ovviamente è immaginabile che la società così respinta al di fuori dei poteri pubblici fino al punto che questi non siano più definibili neppure come tali, potrebbe continuare a produrre i propri spazi pubblici più o meno legalmente, più o meno clandestinamente, al di fuori dello statuale, ma con tutte le qualità vere e proprie di un’amministrazione democratica della vita pubblica. Riteniamo che i casi eccezionali abbiano un grande valore euristico e vorremmo fare un esempio storico da una prospettiva spazializzante, quello della nascita della tipica forma di spazio pubblico della classe lavoratrice del XIX secolo: il consiglio operaio.

4. Ci sarebbe da chiedersi perché la classe lavoratrice abbia spontaneamente eletto a proprio spazio pubblico lo spazio della fabbrica e non la piazza o i propri quartieri, perché, al contrario, la piazza e lo spazio pubblico urbano del XIX secolo prodotto dall’ascesa della borghesia non fossero percepiti come luoghi democratici del dialogo e della decisione, ma anzi del conflitto, del delitto e della rottura del patto sociale. Una domanda ulteriore che ci potremmo porre è perché sia stata proprio la classe lavoratrice a produrre uno spazio pubblico di tal genere e lo abbia situato nel suo luogo di lavoro e non la folla anonima che popolava e minacciava le città industrializzate della prima modernità nelle sue strade, nelle sua piazze e nei suoi quartieri. Apparentemente questo evento sembra contraddire quei riformisti o rivoluzionari che puntavano a un rinnovo civico o a un rovesciamento radicale della società borghese su base spaziale. In realtà, col nostro esempio, vogliamo far emergere le ragioni profondamente spazializzate di questo evento. Occorre, da principio, considerare che i lavoratori impiegavano la maggior parte del proprio tempo nello spazio della fabbrica e non nelle abitazioni o nello spazio pubblico. Occorre considerare, inoltre, che il proprio spazio privato era costituito da abitazioni malsane, spoglie, sovraffollate, in affitto e volutamente disposte in modo da essere nascoste al pubblico sguardo[17], inadatte all’incontro e alla riunione. Non solo il tempo impiegabile nel proprio spazio privato era radicalmente stato espropriato da una giornata lavorativa che occupava quasi tutto il tempo della veglia, ma, inoltre, quel poco tempo libero che restava nel quale il lavoratore tornava ad essere solo l’individuo anonimo di una folla era preferibilmente impiegato nelle taverne e nelle birrerie, luoghi che stavano alla classe lavoratrice come i caffè stavano alla classe borghese. La maggior parte del tempo della socialità del lavoratore era, dunque, vissuta in uno spazio privato altrui, quello del capitalista. La classe lavoratrice così privata di un suo spazio privato dignitoso era anche, a questo modo, implicitamente respinta fuori dallo spazio pubblico borghese: il lavoratore vi appariva solo in quanto lavoratore o in quanto folla, pericolo per l’ordine e il decoro pubblici, quando non lavorava. Non deve sorprendere allora che quello spazio privato che era la fabbrica sia diventato spontaneamente lo spazio della sua socialità, questa si manifestava nell’unico luogo nel quale effettivamente il lavoratore intratteneva per la maggior parte del suo tempo delle relazioni sociali. Ma la spontanea costituzione di questo spazio sociale all’interno del suo elemento contradditorio, lo spazio privato del capitalista, non poteva a questo punto non divenire anche lo spazio per eccellenza dei suoi poteri. Lo spazio sociale dei lavoratori che prosperava di straforo all’interno dello spazio privato del capitalista era l’unica occasione per esercitare l’opinione, dialogo, la disputa, la decisione: lo spazio pubblico della classe operaia che ha storicamente preso la forma del consiglio cresceva all’interno dello spazio privato del capitalista ed esercitando i propri poteri pubblici lo minava dall’interno, fino a delegittimare le sue pretese di privato su quella potenza sociale a lui vincolata per contratto e su quello stesso spazio pubblico di cui era proprietario. Si trattava di una forma di democrazia che nasceva scavando all’interno di quella borghese preesistente e che quest’ultima con la sua stessa esistenza negava, di uno spazio pubblico che cresceva a danno dello spazio privato del capitalista. Lo spazio dell’opinione, il dialogo, la disputa e la decisione erano possibili solo all’interno della socialità solidale che l’aveva creato e non al di fuori quello, così fuori da quello spazio, nella piazza, non era possibile alcuna agorà, ma solo una dialettica in cui le due forme di democrazia, quella dominante e quella nascente si trovavano l’una di fronte all’altra in una relazione di contraddizione e di conflitto.

5. Il termine “spazio privato” (termine s2) è, dunque, in contraddizione con lo “spazio sociale” (termine s2), esattamente come nel nostro esempio sulle determinazioni spaziali del consiglio operaio. Ovvero, dove vi sia uno spazio sociale non si dà possibilità, per principio, di uno spazio privato, se non nella forma della contraddizione, ma solo di uno spazio intimo, uno spazio non-pubblico, come suo contrario. E laddove si dà uno spazio intimo non è possibile uno spazio pubblico, se non nella forma della contraddizione, ma solo uno spazio sociale, uno spazio non-privato, come suo contrario. A differenza che nello spazio pubblico della polis così come analizzato dalla Arendt, in uno spazio sociale non è dovuto nascondere nel privato lo spazio della necessità, non c’è alcun bisogno di uno spazio privato dove operare il nascondimento del proprio lavoro e della riproduzione della vita. Ciononostante non significa che non vi siano fondamentali spazi esclusivi in cui esercitare la propria singolarità, ovvero spazi intimi, spazi non-pubblici. Questo perché come vedremo in quelle relazioni complementari chiamate “deissi” (s1 + s2 e s2 + s1) gli spazi privati sono non-pubblici ma non tutti gli spazi non-pubblici sono privati, che è come dire la sfera privata è anche una sfera dell’intimità ma non tutti gli aspetti dell’intimità hanno carattere di spazio privato. Molte funzioni della sfera privata sono stati presi in carico nella modernità dai poteri pubblici, ma questo non è possibile con quello spazio privato che coincide con tutte le declinazioni della sfera intima, a meno che non si prenda in seria considerazione una relazione di tipo contradditorio. Ugualmente, gli spazi pubblici sono non-privati ma non tutti gli spazi non-privati sono pubblici, che è come dire la sfera pubblica è, come abbiamo visto, anche una sfera sociale ma non tutto ciò che è societas ha carattere di spazio pubblico. Questi spazi sociali possono implicare il pubblico inteso come statuale, ma possono anche non raggiungere mai una forma prossima allo stato o essere addirittura preventivamente organizzate contro la possibilità che nasca uno stato[18]. Se lo spazio sociale include la possibilità della costituzione di uno spazio pubblico, questo, dal canto suo, si deve costituire sempre e solo a partire da uno spazio sociale. Se molte funzioni della sfera pubblica sono privatizzabili o regolabili secondo il diritto privato, come accade sempre di più nel nostro mondo, esso perde man mano il suo carattere di spazio non-privato e ciò che perde è fondamentalmente la socialità autentica. Ciò non significa che la socialità smetterà di manifestarsi, ma che si manifesterà e continuerà a prosperare, anche in modalità più intense, al di fuori dello spazio pubblico. Lo stesso discorso è valido se alcune funzioni tipiche della vita privata sono prese in carico dai poteri pubblici o regolati dallo statuale: lo spazio privato in questi casi perde man mano il suo carattere di spazio non-pubblico e ciò che perde è fondamentalmente un’intimità autentica con le persone e le cose nell’impossibilità di sottrarle del tutto alla dimensione mondana. Anche qui, ciò non significa che la sfera intima smetterà di manifestarsi, ma che tenderà sempre più a manifestarsi e a prosperare, anche in modalità più intense, al di fuori dello spazio privato, così come finora conosciuto. Anche qui, è possibile prendere in considerazione la possibilità della coesistenza contraddittoria di s2 + s2, di “spazio sociale” e “spazio privato”. Laddove molte prerogative dello spazio pubblico siano state privatizzate e la cui accessibilità sia stata limitata e la sua frequentazione sia diventata selettiva, la circolazione regolata e controllata, un gruppo sociale, ad esempio, che si trovi escluso perché privo dei requisiti per partecipare a quella forma di spazio pubblico esclusivo, che rimarrebbe così confinato e segregato, potrebbe disperdersi e ciascun individuo o famiglia che ne faceva parte potrebbe finire recluso nell’intimità del suo spazio privato, ma qualora ne abbia l’iniziativa e poste certe condizioni culturali, potrebbe anche creare una comunità di vicinato o una rete sociale tali da generare uno spazio sociale che non è ancora definibile come pubblico in quanto non accessibile a chiunque, in quanto ciò che lega questi individui e famiglie è la relazione localizzata e che, pur essendo il risultato di una combinazione di iniziative private, tenderebbe a recuperare la dimensione sociale che la dimensione pubblica svuotata dalla sua privatizzazione tratteneva sempre meno, non risolvendo la questione dell’ingiustizia spaziale che ne è all’origine ma stabilendo le condizioni preliminari perché si possa costituire un vero e proprio nuovo potere pubblico che porti il conflitto negli spazi pubblici da cui era stato escluso. Così, come, al contrario, laddove molte prerogative dello spazio privato siano limitate dall’espansione e dall’invadenza dei poteri pubblici, intesi come statuale o meno, su ogni aspetto della vita, regolando di fatto l’espressione della personalità in ogni sua forma, sia in pubblico che in privato, vi è la possibilità che individui si associno per manifestare la loro differenza trasgredendo simbolicamente o concretamente, alla luce del sole o clandestinamente, le interdizioni legali, morali, comportamentali che li vincolano a quella parte della società che esercita quei poteri. Queste trasgressioni possono appartenere ad ambiti tanto differenti tra loro quanti sono i ruoli sociali in un sistema altamente specializzato e differenziato per classi, genere, età, etnia e religione, ma esprimono tutte una rivolta dell’individuo, anche qualora si presentino sotto la forma dell’associazione, contro le istituzioni pubbliche, contro l’invasione della sfera pubblica su quella privata. Si può dare, inoltre il caso, che laddove la sfera privata abbia del tutto preso a carico le prerogative della sfera pubblica, si creino una sfera privata organizzata in corporation che garantisce privatamente ciò che garantiva lo statuale e una sfera privata che finisce col corrispondere quasi del tutto con la sfera dell’intimità e della soggettività, si tratta della “deissi” s2 + s1. Anche in questa situazione del tutto simile per le sue conseguenze a quella laddove lo statuale ha trasgredito tutte le frontiere dello spazio privato, si può dare una rivolta dell’individuo contro le istituzioni che regolano la vita. Questo tipo di rivolta la ritroviamo nei dialoghi e nelle dissertazioni di Carlo Michelstaedter[19] in tempi davvero non sospetti.

6. Per procedere oltre dobbiamo a questo punto prendere in considerazione più in profondità la relazione tra i termini “spazio sociale” e “spazio intimo” che sono risultati dall’operazione di negazione dei termini primitivi, questa relazione tra i termini residuali è chiamata di “sub-contrarietà”. L’ipotesi che si tratti di sub-contrari ci sembra confermata da diversi passaggi del saggio “The Human Condition” della Arendt. Da qui:

 spazio sociale(s2) < ———————- > spazio intimo(s1)

 Questi sub-contrari sono contrari ma si presuppongono, sono termini residuali che abbiamo desunto dai termini primitivi “spazio pubblico” e “spazio privato”, si tratta di due modalità di appropriazione dello spazio diventate sempre più indipendenti nella modernità. Condividiamo la genealogia della forma moderna di questi spazi così come riportata dalla Arendt: è come se l’ammissione nello spazio pubblico di ciò che un tempo era respinto in quello privato, avesse liberato man mano dalla sfera pubblica quella sociale e dalla sfera privata quella intima. Il fatto che si tratti di termini residuali, cioè di termini generici che stanno per “non-privato” e “non-pubblico” ci sembra di poterlo evincere dal passaggio in cui la Arendt sostiene che l’intimità del cuore diversamente dalla sfera domestica e dunque dall’originario spazio privato “non ha alcun posto tangibile nel mondo, e neppure la società, contro cui l’interiorità protesta e afferma le proprie ragioni, può essere localizzata con la stessa certezza di uno spazio pubblico[20]”. Ciò che condividiamo, dunque, è che se spazio sociale e spazio intimo siano nel mondo contemporaneo considerabili una coppia di sub-contrari ciò deriva dal profondo mutamento dei termini primitivi, spazio pubblico e spazio privato rispetto alla loro concezione da parte degli antichi. Ciò che non condividiamo è che lo spazio sociale e lo spazio intimo fossero prima di questo evento sconosciuti: se portiamo la genealogia ancora più indietro o lontano, se portiamo uno sguardo antropologico al passato o al presente della questione dell’organizzazione dello spazio, dovremmo prendere in considerazione civiltà ed epoche diverse in cui spazio sociale e spazio intimo esistevano ben prima dello spazio pubblico e dello spazio privato così come si ritrovano nella polis, anche se, tuttavia,  solo con la modernità, socialità e intimità si sono separate così nettamente da divenire chiaramente due sfere e due spazi differenti e contrari.

7. Abbiamo finora individuato le relazioni di contrarietà, di contraddizione e di sub-contrarietà, per completare il quadrato semiotico occorrerà ora individuare anche le relazioni di complementarietà.  Si tratta delle relazioni tra spazio pubblico (s1) e spazio sociale (s2) e tra spazio privato (s2) e spazio intimo (s1). Vi abbiamo già accennato, soprattutto facendo appello alle dissertazioni di Michelstaedter, perché la comprensione del nostro discorso lo richiedeva. Come abbiamo scritto, lo “spazio intimo” implica “lo spazio privato” e lo “spazio sociale” implica lo “spazio pubblico”, diversamente lo spazio pubblico è sempre anche uno spazio sociale ma non implica tutte le forme di spazio sociale esistenti e lo spazio privato è sempre anche uno spazio dell’intimità ma non implica tutte le forme in cui si manifesta l’intimità. Si dice in questo caso che lo spazio pubblico presuppone lo spazio sociale e lo spazio privato presuppone lo spazio intimo e queste relazioni di complementarietà sono chiamate, come abbiamo già potuto dire, “deissi”.

Se “spazio pubblico” e “spazio privato” da una parte e “spazio sociale” e “spazio intimo” dall’altra, contraggono relazioni di contrarietà e costituiscono, il primo l’asse dei contrari e, il secondo, l’asse dei sub-contrari, le relazioni contraddittorie che abbiamo visto tra “spazio pubblico” e “spazio intimo”da una parte e tra “spazio privato” e “spazio sociale” dall’altra sono chiamate “schema positivo” l’una e “schema negativo” l’altra. Mentre le relazioni che abbiamo appena visto tra “spazio pubblico” e “spazio sociale” da una parte e “spazio privato” e “spazio intimo” dall’altra sono chiamate “deissi positiva” l’una e “deissi negativa” l’altra. Abbiamo così infine il nostro quadrato semiotico degli ordinamenti spaziali [immagine nella gallery].

Questo è solo il primo tempo di una partita che ha più di due tempi, qui accenneremo solo al secondo (nei prossimi due post), cioè le articolazioni delle relazioni che abbiamo individuato finora, un eventuale terzo tempo deriverebbe dal gioco di articolazioni ancor più complesso tra due quadrati semiotici, ma questo ulteriore step non verrà qui preso in considerazione.                

                           


[1] Greimas A.J. and Rastier F., “The interaction of semiotic constraints”, in Yale French Studies, pp. 86-105, Issue 41 “Game, Play, Literature”, Eastern Press,1968, New Haven. 

[2] Greimas A. J. , Semantica strutturale, Meltemi, 2000, Roma.

[3] Cfr. Viganò P., I territori dell’urbanistica, Officina, 2010, Roma.

[4] Greimas A.J. and Rastier F., op. cit. , p.86. 

[5] Si veda Warf B. and Arias S., The Spatial Turn. Interdisciplinary perspectives, Routledge, 2008, New York; Soja E. W., Postmodern Geographies. The Reassertion of Space in Critical Social Theory, Verso, 1989, London/New York.   

[6] Webber M.M., “Luoghi urbani e sfera urbana non locale”, in Webber et al., Indagini sulla struttura urbana, Il saggiatore, 1968, Milano.

[7] Lefebvre H., La produzione dello spazio, 2 Vol., Moizzi, 1976, Milano. 

[8] Soja E. W., Thirdspace. Journey to Los Angeles and Other Real-and-Imagined Places, Blackwell, 1996, Malden

[9] Jorn A., “Selvatichezza, barbarie e civiltà”, in Jorn A., La comunità prodiga, Zona, 2000, Rapallo.

[10] Si pensi alla rivista Espaces et sociétés fondata nel 1970 da Henri Lefebvre e Anatole Kopp, divenuta in Italia dapprima la collana “Spazio & Società” della Moizzi editore diretta da Riccardo Mariani e poi l’omonima rivista fondata e diretta da Giancarlo de Carlo dal 1978.

[11]  Cfr. lo “Spatial Turn in History” o “Spatial History” portato avanti dallo storico staunitense Richard White nel The Spatial History Lab della Stanford University , cfr. White R., What is Spatial History?, http://www.stanford.edu/group/spatialhistory/media/images/publication/what%20is%20spatial%20history%20pub%20020110.pdf

[12] Badiou A., Manifesto per la filosofia, Cronopio, 2008, Napoli.

[13] Heidegger M., “Costruire, abitare, pensare”, in Heidegger M., Saggi e discorsi, Mursia, 1976, Milano.

[14] Floch J.-M., “La Casa Braunschweig di  Georges Baines. Contrasti e rime plastiche in architettura”, in Floch J.-M., Bricolage. Lettera ai semiologi della terra ferma, Meltemi, 2006, Roma.

[15] Arendt H., Vita activa: la condizione umana, Bompiani, 2009, Milano. 

[16] Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, 1988, Roma-Bari, p.41.

[17] Engels F, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Riuniti, 1992, Roma; Booth C., “Vita e lavoro degli abitanti di Londra” in Martinelli F., I classici della sociologia, Liguori, 2001, Napoli; Chevalier Louis, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Laterza, 1976, Roma-Bari; Secchi B., “A new urban question”, in Territorio, 53, Franco Angeli, 2010, Milano.  

[18] Clastres P., La società contro lo stato, Feltrinelli, 1977, Milano. 

[19] Michelstaedter C., La persuasione e la rettorica, Adelphi, 1982, Milano; Michelstaedter C, Il dialogo della salute, Adelphi, 1988, Milano.

[20] Arendt H., op.cit., p.29.