La produzione dello spazio immaginario 3/6
Per gli antropologi tradizionalisti lo spazio diverrebbe reale solo dal momento in cui viene consacrato, sarebbe il sacro a redere i luoghi reali e quindi abitabili, dal punto di vista qui presentato le cose stanno del tutto diversamente: è il sacro che diventa "reale" perché ha un luogo ed è inserito in gioco di posizioni. Premessa decisiva per dimostrare l'origine posizionale dell'aura dell'opera d'arte. Questo post è la terza parte del saggio "La produzione dello spazio immaginario" risultato di un lungo dialogo avviato tra il Centro di Ricerca dei Luoghi Singolari e lo scultore galiziano Nito Contreras nel 2005. Eravamo partiti considerando che l'aura dell'opera d'arte non potesse dirsi dileguata dalla riproducibilità tecnica perché non dipendeva dall'originalità o autenticità dell'oggetto artistico ma dal suo sistema di riferimento spaziale, tuttavia arrivati a questo punto abbiamo scombinato di nuovo le carte in gioco: la questione se l'aura permanga o sia scomparsa ha tutta questa importanza che le viene attribuita per il lavoro di un artista?
Lo spazio, la scultura e il sacro
Come ha avuto inizio l’aura di un’opera? Se accettiamo l’ipotesi che l’opera d’arte in principio avesse la sua funzione all’interno di un sistema culturale magico-religioso, evidentemente questa funzione si spiega solo in relazione al sacro. Abbiamo detto che l’aura è un prodotto sociale, la scuola sociologica francese ha sostenuto che lo stesso sacro fosse un prodotto sociale. Il fatto che il sacro sia un prodotto sociale non diminuisce in alcun modo la sua potenza, in quanto questa non è altro che la potenza della società stessa che s’impone all’individuo preso isolatamente. L’aura quindi deriva dal fatto che l’opera d’arte all’interno di un sistema magico-religioso non è che una rappresentazione per mezzo della quale la società che ha prodotto quel sistema riconosce se stessa e si conferma.
Se un sistema magico-religioso è un prodotto della società che si ripresenta dinnanzi agli individui imponendosi come una realtà che li trascende, l’opera d’arte è il prodotto di un individuo che si ripresenta dinnanzi alla società che l’accoglie come la prova e l’immagine stessa della sua trascendenza. È a questo modo che essa diviene un elemento del sistema magico-religioso e la sua aura, da questo punto di vista, deriva da questo processo che rimanda allo stesso tempo all’immanenza della società e alla sua potenza sugli individui, ovvero al suo carattere riconosciuto come trascendente. Così il totem di un clan non è altro che il clan stesso e il manufatto artistico diviene la rappresentazione o l’oggetto simbolo con cui il clan si riconosce.
Abbiamo visto che ogni clan si rappresentava lo spazio attraverso l’esperienza dello spazio che abitava. Secondo Durkheim la concezione generale dello spazio di un gruppo sociale era il risultato di una proiezione della classificazione sociale sul territorio. Il discorso andrebbe rovesciato: la relazione posizionale e situazionale del clan con il territorio non deriva da una trasposizione dell’organizzazione sociale nell’organizzazione dello spazio, ma è la stessa organizzazione dello spazio a coincidere, o addirittura a precedere, con quella sociale.
Se si ipotizza che classificazione sociale e classificazione spaziale coincidano ne deriva che anche il sacro è un prodotto della concezione dello spazio di un popolo. Franco La Cecla scrive, spiegando la concezione situazionale del sacro di Jonathan Z. Smith: ”Smith sostiene che un rito è un modo anzitutto di ‘prestare attenzione’ (to pay attention), e che è proprio questa caratteristica che spiega il ruolo dei luoghi come componente fondamentale del rituale: i luoghi orientano (direct) l’attenzione; da questo punto di vista non c’è niente che sia, in sé, sacro o profano. Queste non sono categorie sostantive, ma piuttosto situazionali. La sacralità è anzitutto una categoria posizionale, of emplacement.” Alcuni autori, come Mircea Eliade, hanno dato molta importanza alla relazione tra spazio e sacro, ma solo per affermare che vi è un modello di spazio celeste, extraterreno e ideale che precede quello terrestre, una “pianta”, un “forma” o un “doppio”, un archetipo insomma, che presiede al rituale di fondazione del luogo: “quando si prende possesso di un determinato territorio, cioè quando si comincia ad esplorarlo, si compiono riti che ripetono simbolicamente l’atto della creazione; la zona incolta è prima di tutto ‘cosmizzata’, poi abitata. […] ogni territorio occupato con lo scopo di abitarvi o di utilizzarlo come ‘spazio vitale’ è prima di tutto trasformato dal ‘caos’ in ‘cosmo’; cioè per effetto del rituale gli viene conferita una ‘forma’ che lo fa così diventare reale”. Da questo punto di vista lo spazio diviene reale solo dal momento in cui viene consacrato, è il sacro che renderebbe i luoghi reali e cioè abitabili.
Dal nostro punto di vista è esattamente il contrario: sono le concrete pratiche dell’abitare, l’articolazione spaziale di una società a produrre il sacro. Il nostro discorso è molto vicino a quello della scuola sociologica francese, solo che noi non pensiamo che lo spazio sia classificato a partire dalla società, ma che la configurazione dello spazio e la configurazione sociale coincidano su un piano d’immanenza quando non sia la prima a produrre al seconda.
In questo senso come Smith e La Cecla riteniamo che il sacro sia un prodotto delle relazioni spaziali e sociali. Un santuario è messo al centro di un luogo, non perché quel luogo era sacro o preceduto da un modello celeste, né diviene reale solo perché sacro, i luoghi profani non sono meno reali di quelli sacri, ma perché un popolo decide di organizzare il suo spazio in quel modo, facendo del luogo in cui sorge il santuario un punto di riferimento, di orientamento, parte di una configurazione spaziale che determina i livelli di attenzione.
La Cecla dimostra che non si costruisce un santuario in un luogo perché quel luogo è sacro a priori ma che è a partire da questo posizionamento, dalla scelta di quel luogo come punto di riferimento per l’uso dello spazio che si produce il sacro. Da qui ne deriva che il sacro si produce a partire dai sistemi di posizioni e relazioni nello spazio. Non è il luogo che diventa reale perché sacro, ma il sacro che diventa reale perché ha un luogo.
La Cecla scrive: “Si tratta di ‘piazzare’ (to place) degli oggetti, persone o avvenimenti in un luogo preciso; al di fuori del quale gli stessi perderebbero di significato”. Se il sacro è posizionale, l’aura lo sarà allo stesso modo. L’aura è tutt’ora di origine posizionale? Senza dubbio, ma occorre considerare l’azzeramento dello spazio che caratterizza l’esperienza contemporanea. Marx ha scritto che la circolazione del capitale avrebbe raggiunto una tale velocità da azzerare lo spazio attraverso il tempo e oggi questa tesi è molto attuale. Basti pensare a ciò che hanno detto su questa questione l’urbanista Paul Virilio o il sociologo Manuel Castells. Azzeramento dello spazio significa quindi di nuovo annullamento dell’aura? Ancora no, finché vi saranno luoghi. Vi sono infatti ancora luoghi dell’arte istituzionali: dai musei alle gallerie, dalle aste agli studi che la tengono in vita, in quanto le danno una posizione nello spazio sociale.
Ma arrivati a questo punto lo diciamo chiaramente: questa anticipazione di una possibile ridiscussione delle tesi di Benjamin non ci soddisfa ancora. Pur prendendo in considerazione categorie dell’antropologia innovative, abbiamo dovuto ancora ammettere dei luoghi comuni. Uno di questi ad esempio è che l’opera d’arte nelle società tradizionali avesse una funzione magico-religiosa e non ad esempio, ipotesi più convincente, ludica o ricreativa. Un altro luogo comune è che l’aura dell’opera d’arte diventi evidente solo a partire dal riconoscimento in un limitato sistema relazionale: la cerchia degli esperti. Il resto delle opere, in questo caso, quelle non ammesse nei luoghi istituzionali, sono forse senz’aura?
Abbiamo sostenuto che l’aura dell’opera d’arte è il risultato di un gioco di posizioni nello spazio. Da questo punto di vista l’aura delle opere d’arte va cercata all’interno della rete spaziale cui fa riferimento. Vedremo come a partire da questa ipotesi si possano trarre conclusioni antropologiche interessanti sulla scultura, ma per ora vogliamo chiarire che se l’aura permanga o non permanga, dal punto di vista del lavoro dell’artista è una questione che ha davvero poca importanza.
Ciò che oggi viene in primo piano è il processo genealogico stesso dal quale abbiamo ipotizzato che si generi l’aura: producendo nuovi spazi.
Per quanto riguarda la scultura, il soggetto con cui qui dialoghiamo, se non le viene riconosciuto la qualità di spazio, essa si fa spazio comunque, uno spazio legato all’immaginazione, orizzonte non del tutto individuato oggi dalla critica. Il lavoro degli scultori rivela negli ultimi dieci anni una chiarezza e lucidità prima impossibili, proprio perché sono molto al di là di qualsiasi disquisizione sull’aura o il mercato dell’arte.
Si tratta ora di esplorare questo nuovo orizzonte per la scultura nel suo divenire: la ricerca, il progetto, la produzione di spazio immaginario. Si tratterà di esporre una metodologia di lavoro esemplare e non un nuovo movimento. Questa lunga introduzione ci è servita per porre le premesse per una comprensione di questa metodologia. Ma è solo a partire da questa, dalle pratiche della scultura che potremo farci un’idea di quanto la scultura ecceda sia i discorsi antropologici che quelli della critica.
Nito Contreras e Centro di Ricerca dei Luoghi Singolari, 2005