La produzione dello spazio immaginario 1/6
Nel maggio 2005 il Centro di Ricerca dei Luoghi Singolari avvia con lo scultore Nito Conteras una riflessione durata alcune settimane sulla relazione tra scultura e spazio. Quei giorni di discussione e scambio di idee portarono a un saggio mai pubblicato dal titolo "La produzione dello spazio immaginario" diviso in tre parti: la prima indagava "lo spazio della scultura"; la seconda, un "intermezzo", trattava dell'"esperienza primitiva dello spazio" e dell'uso del concetto di "primitivo" nella critica dell'arte; la terza proponeva alcune metodologie di lavoro. Sebbene molti discorsi che vi si ritrovano siano diventati col tempo acquisiti, riteniamo che alcuni passaggi, anche e soprattutto per il taglio antropologico e l'incedere divagante e aperto della riflessione, trattengano idee ancora attuali e d'interesse per lo sviluppo di un approccio originale e innovativo alla relazione tra pratica artistica e produzione dello spazio. Abbiamo deciso di metterne on line alcuni estratti, dividendoli in sei capitoli. Qui troverete il primo: "La scultura come produzione dello spazio".
La scultura come produzione dello spazio
La diffusione della concezione dello spazio come vuoto è stata facilitata nel mondo contemporaneo dal fatto che con questa parola dagli anni ’50 in poi, attraverso l’immaginario creato dal cinema, dai romanzi e dai fumetti di fantascienza da un lato e attraverso la letteratura scientifica divulgativa dall’altro, venne ad identificarsi con il cosmo e l’universo. Un outer space che sembrava essere destinato a rappresentare la nuova frontiera aperta per l’esplorazione e la colonizzazione umana così come una volta lo erano le praterie nordamericane. Sia la fantascienza che la popular science erano figlie di una concezione ottimista e progressiva delle sorti di un’umanità uscita da poco da un conflitto mondiale devastante. Il boom economico e il progresso scientifico e tecnologico senza precedenti i cui prodotti divenivano una realtà del consumo di massa lasciavano ben sperare. Lo spazio divenne l’ultima frontiera dove ancora nessun umano era giunto prima, un vuoto che avremmo colmato per conquista. L’architetto e antropologo Franco La Cecla osserva che consultando la biblioteca dell’Università di Berkeley sotto la parola “spazio” si incontrano tutt’oggi in gran parte volumi della Nasa e di enti affini.
Tuttavia, lo spazio non è un vuoto che andrebbe riempito o un’entità illimitata e indefinita nella quale sia possibile immaginare il situarsi dei corpi o attraverso cui sarebbe possibile il movimento. Lo spazio non ha senso se non in relazione con le concrete pratiche che lo abitano. Durkheim e Mauss hanno sostenuto che la rappresentazione dello spazio ha un’origine sociale, ogni società produce la propria concezione dello spazio a partire dalle proprie “forme di abitare”. Durkheim scrive: “In Australia e nell’America settentrionale esistono società in cui lo spazio è concepito sotto forma di un cerchio immenso, perché l’accampamento ha anch’esso una forma circolare, e il cerchio spaziale è esattamente diviso come il cerchio della tribù e ad immagine di questo”. Così, nello spazio vi sono tante regioni diverse quanti sono i clan della tribù e il posto occupato da ogni clan nell’accampamento determina la posizione delle regioni. Presso gli Zuñi il villaggio comprende sette quartieri, ognuno di questi quartieri rappresenta un gruppo del clan. Lo spazio geografico è diviso in sette regioni orientate esattamente come i sette quartieri. Ogni quartiere ha poi il suo colore che lo rappresenta, ed ogni regione geografica è immaginata come rappresentata dallo stesso colore del quartiere che ne determina l’orientamento.
Lo spazio non è un vuoto che andrebbe popolato, ma neanche una realtà che si dà come cosa, come dato fisico e oggettivo immediato. Esso è prodotto dalle “forme dell’abitare” e la sua rappresentazione non è che la proiezione sul mondo di queste forme. E’ come se la mappa della distribuzione di un popolo su un territorio si sovrapponesse e coincidesse con la mappa del territorio del mondo intero. E’ come se una mappa immaginaria, e per quanto immaginaria creata a partire dalle pratiche quotidiane dello spazio, precedesse l’esplorazione e la determinasse. Dalla morfologia sociale del villaggio si genera, così, un’idea globale della geografia del mondo, e, allo stesso modo, si è generata la concezione occidentale di una terra piatta.
La rappresentazione dello spazio per Durkheim non deriverebbe altro che da una classificazione del territorio che si produce come calco della classificazione sociale. Noi ipotizziamo, al contrario, che siano invece le pratiche dello spazio, le concrete “forme dell’abitare” che abbiano prodotto una rappresentazione generale dello spazio e legittimato a partire da questa la configurazione sociale.
Sempre Durkheim scrive: “Di per sé lo spazio non ha né destra né sinistra, né alto né basso, né settentrione né mezzogiorno: tutte queste distinzioni derivano evidentemente dal fatto che alle regioni sono stati attribuiti valori affettivi diversi”. Lo spazio nasce come esperienza percettiva intersoggettiva dell’abitare. E l’abitare ha sempre ha a che fare con l’attribuzione di valori affettivi ai luoghi che orientano la vita sociale così come funzionano da bussola emozionale e immaginifica per muoversi attraverso lo spazio.
Lèvi-Strauss scrive: “I missionari salesiani della regione del Rio das Graças si rendono subito conto che il mezzo più sicuro per convertire i Bororo consiste nel far loro abbandonare il villaggio per un altro dove le case sono disposte in file parallele […] la distribuzione circolare delle capanne intorno alla casa degli uomini era di estrema importanza per quel che riguarda la vita sociale e le pratiche del culto”. Franco La Cecla commenta così questo passaggio:”I Bororo restano disorientati, non si ‘raccapezzano’ più con i punti cardinali”.
Oggi la percezione intersoggettiva dello spazio è stata sostituita dalla mediazione oggettiva della tecnologia di telerilevamento, lo spazio sembrebbe diventato un dato oggettivo che è l’oggettività della macchina che vede al posto nostro. Ma non è questo il punto, il fatto che oggi sia possibile una rappresentazione macchinica dello spazio non preclude la possibilità di altre rappresentazioni, soprattutto quando si tratta di superfici psicogeografiche che la macchina non è in grado di cogliere.
L’intersoggettività della concezione dello spazio primitiva rimane un’esperienza fondamentale che si manifesta ancora oggi nelle “forme dell’abitare” contemporaneo, nelle metropoli, attraverso le mappe mentali che gli abitanti si fanno del loro spazio, così come nell’arte, in particolar modo nella poesia e nella scultura. E questo spazio di cui parliamo non è uno spazio vuoto, si tratta di uno spazio che viene continuamente prodotto in quanto popolato. Sono le mappe mentali e, in qualche modo, immaginarie e immaginate, mappe immanenti alle pratiche del camminare e dell’abitare che attribuiscono valori affettivi ai luoghi e che producono lo spazio.
Il vuoto non è la dimensione originaria dello spazio, non si tratta del momento precedente il suo popolamento, esso è dato piuttosto dallo sgombero dello spazio, esso si determina sempre a partire da uno spopolamento. Il vuoto è creato per sottrazione, per svuotamento di uno spazio che esiste solo in quanto è abitato.
Lo scultore basco Jorge Oteiza concepiva il proprio fare scultura proprio come uno svuotamento dello spazio. Ogni scultura era un buco nello spazio dell’abitare, un buco dal quale venivano lanciate linee di fuga per nuovi popoli, si trattava di “svuotare la città per vedere il cielo”. Fare un cubo o una sfera significa allora svuotare lo spazio di un cubo o di una sfera.
Oteiza crea lo spazio vuoto a partire dalla sua dimensione originaria: lo spazio pieno. La concezione classica della scultura ne ha sempre fatto un volume che occupa uno spazio. Oteiza ha rovesciato questo principio. Ma se il rovescio di questo principio è la produzione di spazi vuoti, questo per noi significa soltanto che la dimensione originaria dello spazio è uno spazio pieno.
Allora quale sarebbe lo spazio che la scultura occuperebbe? Fare una scultura e cercare uno spazio che essa dovrebbe occupare è una forma di colonizzazione di uno spazio già abitato. Lo spazio è sempre già occupato e popolato, poiché esso si produce solo a partire dal suo uso sociale. La scultura pensata per occupare uno spazio è il prodotto di una mentalità che pianifica l’acculturazione aggressiva. E’ la ripetizione in ambito artistico dell’antica ambizione umana della conquista dello spazio.
La scultura in realtà non dovrebbe aspettare che le venga concesso uno spazio, giacché non è alla ricerca di un vuoto, infatti essa non riempie uno spazio: la scultura lo produce. Il lavoro dello scultore è una produzione continua di spazi. La scultura può occupare uno spazio solo sostituendo il proprio con quello che vi era prima, prodotto da qualcun altro, ma questo è un pessimo modo di fare scultura, un approccio monumentale e che non può che incontrare l’ostilità di chi popola già quello spazio.
Oteiza produceva spazi, per sottrazione. L’altra modalità, quella che qui c’interessa e che svilupperemo, non avviene per occupazione dello spazio, ma per produzione. Vi è uno spazio: quello immanente della scultura. Fare una scultura è già un fare spazio.
Nito Contreras e Centro di Ricerca dei Luoghi Singolari, 2005.
Bibliografia:
Durkheim E., Le forme elementari della vita religiosa, Milano, 1963, di Comunità.
La Cecla F., Mente locale, s.l., 1993, Elèuthera.
Lapagesse C. – Gazapo D., Oteiza y la Arquitectura: múltiple reflejo…, Navarra, 1996, Pamiela.
Lefebvre H., La rivoluzione urbana, Roma, 1973, Armando.
Lévi-Strauss C., Tristi tropici, Milano, 1982, Il Saggiatore.