Ribes Sappa è stata una precorritrice sensibile e discreta nel documentare con la fotografia le opere del maestro Fausto delle Chiaie e il suo museo all’aperto. Fin da quando era una bimba, accompagnata dal suo papà, attraversava con meraviglia e incanto lo spazio delle sue opere d’arte collocate per terra davanti all’Ara Pacis, quando questa ancora non era contenuta nel Museo di Meier. Per lungo tempo Fausto è stato apprezzato segretamente da galleristi e collezionisti, considerato un maestro e tuttavia tenuto a distanza, isolato, lasciato senza opportunità. Come vedremo, non che a lui interessasse più di tanto, quella di esporre per le strade delle città era la sua poetica di una vita. A un certo punto quando il Museo di Meier è stato aperto, il suo piccolo museo all’aria aperta proprio lì accanto dapprima sembrò una provocazione e la sua presenza non piaceva a molti, poi con il tempo non si poté più fare a meno di lui. Chi visitava l’Ara Pacis o le esposizioni nel Museo di Meier finiva per visitare anche il museo di Fausto e le due cose erano diventate un percorso psicogeografico unitario sia per i romani che per i turisti. Con la cooptazione del graffitismo e della street art nell’apparato dell’arte romano si aprì improvvisamente uno spiraglio discorsivo e critico istituzionale che potesse recuperare anche Fausto. Ribes lo capì perfettamente, prima di molti e così che, nel tentativo di proteggerne la poetica, nacque l’idea di realizzare non un catalogo, ma un racconto per immagini tascabile che potesse trasformare il museo all’aria aperta in qualcosa da portare sempre con sé. Ne scrissi l’introduzione, un piccolo saggio in cui cercai di restituire la profonda condivisione che avevo con Ribes della meraviglia per l’opera di Fausto. Era il marzo 2010 e fu decisivo, perché ora vi era un documento che rispettava profondamente la sua opera, che anticipò il catalogo istituzionale pubblicato nello stesso anno da Electa. Nella gallery troverete una selezione delle fotografie del racconto di Ribes. Oggi sono gli stessi street artisti a considerare Fausto un loro maestro e a queste fotografie ne abbiamo aggiunta una molto speciale e significativa, sempre scattata da Ribes, di un'opera di NauaN.    

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Fausto Delle Chiaie: dall’Infra-azionismo al Co-opera-azionismo.

Nel 1986 l’Associazione culturale Magazzini Generali organizzò una mostra al Castello Colonna di Genazzano intitolata “Internazionale d’Arte”. Avevo dodici anni, il catalogo era su un tavolo della cucina, mi misi a sfogliarlo, ricordo che mi piaceva molto l’opera di Alì Kichou, perché era vivacemente colorata e glielo dicevo sempre a mio padre: “Mi piace questo!”. Ero un ragazzino e non sapevo niente del fatto che egli fosse algerino e che i suoi tratti colorati erano rielaborazioni pop dei caratteri Tifinagh, l’alfabeto Tuareg. Ma la pagina che più mi rapì di quel catalogo era quella di Fausto Delle Chiaie: una pagina bianca con una scritta sotto che non avevo mai letto fino ad oggi, quando ho ripreso il catalogo in mano. Mi fidavo di quello che mi aveva detto mio padre. Io gli avevo chiesto: “Ma dov’è il quadro?” (usavo la parola “quadro” impropriamente), e lui mi aveva risposto: “Quello è il quadro, non c’è, prova a immaginarlo”. L’effetto che ebbe in me era superiore a qualsiasi trovata di Bruno Munari. In realtà sotto la pagina bianca c’era scritto: “L’opera infraazionista non appare nel catalogo perché così facendo disturberebbe il suo significato e la sua natura d’apparizione”. Dal 1989, quando Fausto Delle Chiaie iniziò a esporre nel suo Museo all’Aria Aperta a Piazza Augusto Imperatore, mi sono imbattuto in lui centinaia di volte e alle volte me ne tornavo a casa con una sua opera così come, qualche anno più tardi ho fatto con l’Aperiodico, il giornale-opera d’arte di un artista che espone al bar Perù e che puoi incontrare da Giorgio, l’enoteca storica di Campo de’ Fiori, quella che c’era già prima che la piazza divenisse una colonia americana, altrettanto interessante: lo spagnolo César Gala. Ma ce ne volle di tempo perché ricollegassi che l’artista di quel Museo invisibile era quello della pagina bianca nel catalogo. Erano i primi anni ’90, una volta tornai con un grosso pezzo di polistirolo con sopra disegnato un Picasso a buon mercato, dissi a mio padre: “Guarda c’ho un Picasso”. E mio padre mi rispose: “E’ un Delle Chiaie, è un’opera importante, non lo sottovalutare Fausto Delle Chiaie, è un artista molto rispettato. Ti ricordi del quadro che non c’era? E’ lui”. Così ho conosciuto Fausto Delle Chiaie prima in un catalogo, attraverso la sua assenza, che come passante e visitatore del suo Museo. La mia passione per l’anonimato è tale che quando entro nel suo Museo non esco mai dalla mia condizione di passante, ci entro alla ricerca di novità nel suo repertorio, scambio due parole di circostanza per avere il piacere di parlarci, lo chiamo “Maestro” perché lo è, parliamo del più e del meno e poi lo saluto. E ogni volta faccio il passante e solo il passante e mai il fan, l’estimatore o l’intellettuale e così non ho mai avuto occasione di raccontargli quanto sia stato importante per me, di come abbia scoperto anche grazie a lui che l’arte non era solo quella visibile nei cataloghi, nelle gallerie e nei musei istituzionali. Non lo dico per fare provocazione, lo dico perché è davvero così: tante volte la mostra permanente di Delle Chiaie era di gran lunga più interessante e stimolante delle mostre organizzate nella teca dell’Ara Pacis di Meier.

Nel Manifesto infra-azionista dell’86 Fausto Delle Chiaie scriveva: “L’infra-azione è azione-donazione-collocazione… di una o più opere, mostrate a terra da parte dell’artista, nei luoghi dell’arte e il suo susseguente allontanamento dall’opera e dal luogo”. Delle Chiaie allora faceva dei doni che avevano il valore di uno scambio obbligatorio, come è nella natura di tutti i sistemi di doni. Ancor’oggi nel suo museo c’è una cassetta per le donazioni in cui c’è scritto: CO-OPERA-AZIONE, libera e obbligatoria. Su come Delle Chiaie abbia compreso profondamente il senso antropologico del dono ci torneremo più avanti. Delle Chiaie nella fase del Manifesto Infra-azionista donava senza che ve ne fosse una richiesta, collocando le sue opere nei luoghi dell’arte o nelle strade e le piazze e, sovente, se ne andava. L’artista donava l’opera e l’opera non era più sua né il luogo lo riguardava più. L’artista è minimizzato, escluso volontariamente, fatto scomparire nella folla oscura dell’anonimato, l’opera rimane nel luogo e se ne appropria come fosse lei il soggetto e non l’artista. E’ un’infrazione che aggiunge e non sottrae, Fausto Delle Chiaie non lavora per sottrazione, non toglie dallo spazio, non lo spopola, non lo scava, non lo forgia, come fanno i grandi scultori contemporanei, egli lavora per addizione, per aggiunta. Aggiunge un qualcosa e sparisce. Almeno in questa fase del suo lavoro. Se c’è un lavoro di sottrazione continuo che avrebbe alla lunga logorato chiunque egli lo fa su stesso e non sull’opera. Egli si sottrae all’opera, al luogo, egli si sottrae alle gallerie, alle mostre, ai cataloghi, alle istituzioni, si sottrae fino alla sparizione. La sua azione è “infra”, non tanto perché aggiunge un qualcosa tra le cose, nel mezzo di un luogo, perché individua una crepa dove egli scorge il suo spazio espositivo, dove “infila” la sua opera, è “infra” soprattutto nel significato di azione “inferiore”, di azione che è “situata di sotto”, azione destinata ad essere dominata e non a dominare. E’ la flessibilità contro la rigidità di cui parla Tarkovskij: “Rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza”. La rigidità è in questo caso l’ottusità del “sistema dell’arte” e degli stessi artisti anti-sistema che ne lamentano la rigidità. L’infra-azione è la debolezza che è potenza, è la debolezza dinnanzi alla quale la forza non può che manifestarsi come ridicola e grottesca o ridursi a niente. L’infra-azione è una tattica, laddove la tattica, come scrive De Certeau è l’astuzia del più debole, l’azione calcolata che si muove attraverso l’assenza di uno spazio proprio. La tattica “ha come luogo solo quello dell’altro”, è movimento “all’interno del campo visivo del nemico”, “approfitta delle occasioni dalle quali dipende, senza alcuna base dalla quale accumulare vantaggi”, la tattica “non riesce a tesaurizzare i suoi guadagni”. Sia nel periodo infra-azionista sia in quello del Museo, che chiameremo “co-opera-azionista” dalla scritta sulla sua cassetta delle donazioni, che coincide con il suo “periodo della presenza”, Delle Chiaie non ha mai smesso di produrre un immenso sistema di doni e, allo stesso tempo, di muoversi tatticamente con i luoghi della città. Ma il suo percorso è l’inverso di tante biografie di artisti celebri o meno: nel tempo è passato da una metodologia di sparizione, di minimizzazione del ruolo dell’artista e della sua personalità, abbandonando l’opera a se stessa, a una metodologia completamente opposta, in cui l’artista si assume la responsabilità di ogni passaggio della presentazione dell’opera. Quello della scelta del luogo, dell’installazione, della custodia, della spiegazione, della cessione. Egli è oggi curatore e custode, è artista e guida, è direttore di un Museo e suo manutentore.  Molti artisti, al contrario, dopo una fase di ebbrezza e celebrità, di intensa presenza si sono eclissati, sono spariti lasciando parlare per sé il discorso della critica. Così l’aspetto fondamentale della sua biografia artistica è il passaggio dall’assenza alla presenza e ciò che è in continuità sono il dono e il rapporto con i luoghi. Ma se l’assenza era un intervento tattico che poteva apparire ovunque, la presenza è un intervento tattico che ha scelto, infine, il suo luogo d’elezione. Poco è cambiato però: egli continua a non avere un suo spazio vero e proprio e trasforma lo spazio che occupa in un “luogo”, nel suo luogo, in un luogo che tutti riconoscono e che tutti riconoscono averlo prodotto lui. Egli ha finito così per creare un altrove: il Museo, dove, a diritto, espone le sue opere, dove egli trasforma i passanti in visitatori. Per tornare su una metafora stalkeriana, senza nulla togliere a quegli architetti che da tre lustri ne hanno fatto il proprio manifesto, se il centro di Roma è una Zona, non è la Zona del film di Tarkovskij, ma quella del romanzo di Boris e Arkadi Strugatski da cui è tratto, “Pic-Nic sul ciglio della strada”, ovvero uno spazio pieno di trabocchetti, il cui attraversamento è rischioso ma che vale la pena affrontare perché te ne puoi tornare a casa, se trovi il Museo di Delle Chiaie, con un Vuoto-Pieno, dei Così-Così, con i rarissimi Occhi-di-Aragosta e addirittura con della pericolosa Gelatina Stregata. Delle Chiaie scrive, ancora, nel suo Manifesto: “L’opera “infra-azionista” per la sua collocazione a terra, per il suo materiale poco costoso, per la sua facilità di trasporto, può essere causa di facili e superficiali interpretazioni, di facili prede, di facili dispersioni-distruzioni. La sua metodologia di apparizione e posizione è già uno stato di inferiorità, precarietà, isolamento, sottomissione, abbandono, allontanamento, esclusione, ecc. ecc. …L’opera quindi denuncia se stessa e il suo ritrovarsi tale. Come l’opera denuncia se stessa, così anche l’assenza dell’artista e il suo susseguente distaccarsi dall’opera e dal luogo, denuncia la situazione di se stesso”. L’infra-azione non è tanto l’opera che avviene “in between” come oggi è nella pratica degli street artist, sulla soglia tra istituzione e vandalismo e che mira con un’antica strategia di seduzione a farsi cooptare, è l’opera che la cultura dominante, superiore, alta guarda con circospezione perché ne capisce perfettamente l’intelligenza, perché capisce che la sfida direttamente sul suo campo ma la cui debolezza gli è inaccettabile. L’ammissione di inferiorità la mette in imbarazzo: l’opera d’arte contemporanea dev’essere suprema più che sublime e l’artista ha poche opzioni nel teatrino ufficiale: o è un bizzoso e capriccioso, o un furbo che mette in scena l’attacco al sistema dell’arte di cui egli è un rappresentante, oppure ancora un uomo sobrio, ma pieno di virtù ribelli o liberali. Dunque la cultura dominante apprezza e guarda da lontano questa singolare, fiera e dignitosa inferiorità, ma la teme, la teme e la tiene a distanza perché essa mette in discussione dalle fondamenta l’ambizione, il successo e la speculazione e tutti i sentimenti più banali che tristi che fanno muovere quelli che la generazione di Delle Chiaie chiamano ancora “sistema dell’arte”. Delle Chiaie non sparisce dal luogo per farsi cercare, non è un comportamento che appartiene alle volgarità del marketing, egli lo fa per pudore, per non interferire con la sua opera, per non distogliere l’attenzione dall’appuntamento tra il passante e il risultato della sua infra-azione.

Ma le cose nel tempo sono cambiate, Delle Chiaie è oltre quel Manifesto scritto nel lontano ’86, in un periodo in cui gli artisti marginali e anti-sistema cercavano forme di auto-organizzazione e di autonomia e dove egli trovò la sua soluzione originale e personale, senza mettersi sulla via del risentimento. Il risentimento è sì una passione triste, ma doverosa per il marginale giacché è la passione distruttiva di chi si trova in una posizione di minorità. E nonostante ciò che ha scritto Nietszche a riguardo – il risentimento la passione riprovevole degli schiavi – essa è il negativo che innalza il marginale direttamente dinnanzi al potere dominante e gli dà l’occasione di affrontarlo: è la ribellione degli schiavi, è la condizione necessaria della loro emancipazione spirituale come direbbe Hegel. Ma Delle Chiaie ha cercato un’altra strada, essere un artista libero subito senza aspettare la liberazione dell’umanità dalla sua schiavitù o lottando per essa.  Delle Chiaie ha costruito concretamente giorno dopo giorno uno spazio utopico, uno spazio solo sognato da tanti artisti anti-sistema e ha finito per produrre un altrove nel pieno di centro di Roma. Così, attraverso questa lenta costruzione, attraverso una “goccia che trabocca e vuole vivere con l’acqua” (dal Manifesto infra-azionista) che stilla tutti giorni da più di vent’anni, egli è andato oltre l’infra-azionismo, oppure l’infra-azione è divenuta qualcos’altro: il “co-opera-azionismo”. Non v’è più l’artista che si sottrae, non v’è più denuncia di una condizione di minorità dell’opera e dell’artista stesso. Ma egli continua a donare e attraverso il dono a creare un sistema di co-opera-azione tra sé, le opere e i passanti trasformati in visitatori (se non in collezionisti sostenitori, il suo sponsor come dice lui stesso). Delle Chiaie sul dono non ha mai ceduto un momento. Davanti a lui c’era il pachidermico sistema burocratico delle istituzioni dell’arte (pachidermico era e pachidermico rimane nonostante esternalizzazioni e privatizzazioni), dove si va avanti solo con le raccomandazioni e, dall’altra, il mercato dell’arte, festa esclusiva piena di buttafuori e buttadentro. O cedeva Fausto o cedeva il sistema. Davide contro Golia. Fionda e pietra (ma non solo sassi, anche pezzi di polistirolo e plastica, e carta appallottolata), insomma questo sono le sue opere. Fausto non ha ceduto neanche un momento e i riconoscimenti che gli stanno per piovere sulla testa sono la dimostrazione che la tattica della debolezza vince contro la strategia della forza. Ma non bisogna pensare che sia una cosa facile che tutti possono fare, occorre esserci tutti i giorni, ogni giorno una goccia, ogni volta un pezzo nuovo, pieno di poesia, nel suo repertorio e non cedere mai. L’etnologo Marcel Mauss nel Saggio sul dono scrive che la “cosa” ricevuta non è un oggetto inerte, “anche se abbandonata dal donatore, è ancora qualcosa di lui”, “per mezzo di essa egli ha presa sul beneficiario”. Il dono ha incorporato un potere spirituale, lo hau, e il donatore dona, dunque, una parte di se stesso che vuole sempre tornare a lui, trasferita e incorporata come hau in un altro oggetto. Rifiutare di accettare un dono equivale a una dichiarazione di guerra e tenersi per sé il dono interrompendo il sistema di doni offerti e contraccambiati è illecito, pericoloso e mortale. Delle Chiaie offrendo le sue opere ai passanti e ai turisti da più di vent’anni con uno scambio monetario che è esclusivamente simbolico tiene in scacco la città e il mondo. Questo immenso hau incorporato in migliaia di migliaia di opere messe in circolazione in tanti anni nel corpo della città e oltre di essa, prima o poi, presto o tardi, dovrà essere contraccambiato. Lo hau del donatore vuole e deve tornare a lui sotto altra forma, sotto la forma di un ulteriore dono che la città gli deve, ristabilendo l’equilibrio nel gioco della sua co-opera-azione.

Quando Ribes Sappa ha deciso di raccogliere le sue foto delle opere di Fausto Delle Chiaie non aveva alcuna intenzione di realizzare un catalogo, questo che avete tra le mani non è un catalogo, siamo fedeli all’idea che in un catalogo su Fausto Delle Chiaie le pagine dovrebbero essere tutte bianche. L’idea di Ribes, come d’altronde ha già sperimentato in altre occasioni è quella del “racconto per immagini”. Qui non c’è l’intenzione di catalogare il repertorio di Delle Chiaie, a questo ci penseranno le istituzioni quando finalmente cederanno al suo sistema di doni, ma di riportare l’esperienza del passante che attraversa il suo Museo. Ribes dice: “ho iniziato a fotografare le opere di Fausto cercando di realizzare un “racconto per immagini”, cercando di interferire il meno possibile e restituire l’esperienza del passante. Solo in alcuni casi mi sono soffermata sui dettagli, come capita a chi si avvicina per osservare meglio e leggere le targhette delle sue opere. Queste immagini sono un dono a Fausto, all’artista che ogni giorno dona a noi passanti la sua arte. Ho pensato di ricambiare attraverso quello che so fare …. scrivere con la fotografia”. Questo racconto è un viaggio di trenta metri nell’Altrove che egli ha costruito, nello spazio dell’utopia che egli ha reso concreto, nel luogo dove egli è direttore, allestitore, curatore, custode, cassiere, manutentore, magazziniere e tra le altre cose, artista libero. Potremmo soffermarci su ogni singola opera che egli c’ha descritto e di cui, alle volte, ci ha rivelato il segreto, ma non lo faremo. Questo racconto per immagini è fatto per i passanti così come il Museo di Delle Chiaie, non è stato realizzato con sovvenzionamenti o per rendere più credibile il suo lavoro (non ne ha alcun bisogno), ma per prender parte con la scrittura e la fotografia alla sua co-opera-azione. Delle Chiaie spesso dice che nessuno di coloro che scrivono su di lui poi lo va a cercare per tenerlo informato di cosa abbia effettivamente scritto. Giacché questo racconto ha il valore di un dono nei suoi confronti, per noi è importante che lui sia il primo a poterlo sfogliare.  Ribes, si sa, non crede ai propri occhi, si fida solo di ciò che entra nel campo visivo del suo obbiettivo, quindi fidatevi delle sue immagini: parlano da sole.  Ribes dice: “Un’altra idea che mi ha spinto a fotografare le opere di Fausto è il tentativo di provare a miniaturizzare, a rendere “tascabile” e “trasportabile” la grande esposizione che ogni giorno all’Ara Pacis allestisce e smonta, qualunque siano le condizioni climatiche. Ricordo di averlo visto sotto la pioggia, immobile, con l’ombrello aperto, sotto le Res Gestae di Augusto, o con il vento che gli faceva volare le sue mappe appallottolate e lui, sempre con gentilezza e con il sorriso, mi diceva: «ehhh…. vuol giocare, vuol giocare il vento». O nelle calde giornate di agosto, quando Roma si svuotava dei suoi abitanti e quando i turisti passavano solo di rado (perché l’Ara Pacis fino a qualche anno fa non era frequentata come oggi, spesso per ore non passava nessuno), e si sentiva il suono del caldo, il suono delle cicale fra gli alti cespugli del mausoleo di Augusto, e anche in questo caso, con la temperatura a 38 gradi, Fausto era lì, con il suo Museo, ad aspettare i suoi passanti-visitatori e ad ascoltare le cicale: « eeehh… oggi cantano, senti come cantano».

Se volete farvi spiegare le opere scendete in strada e andate a Piazza Augusto Imperatore a parlare con Fausto Delle Chiaie, lui sarà la vostra guida. Se non siete di Roma e non potete venire a far visita al suo Museo, se questo racconto vi sarà piaciuto, scrivete pure a Fausto Delle Chiaie, Open Air Museum presso Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, 00186, Roma, Italia.   

 

 

Daniele Vazquez, 2010