metrotopie romane
Inauguriamo questa categoria invitandovi a fare un confronto tra le due mappe che trovate nella gallery. Si tratta in entrambi i casi di una mappa immaginaria della metropolitana di Roma (ma non per questo non attendibile). Una si intitola "U.S.T." ed è stata realizzata dal grafico Fabian McDonald nel 2009, diventata in seguito la copertina del nostro Manuale di Psicogeografia. L'altra intitolata "I have a dream" uscita nel 2011 è stata realizzata dalle TIC Edizioni. Che sboccino mille mappe della metro di Roma, con buona pace degli archeologi! Vi invitiamo inoltre a leggere l'articolo che segue di Sandro Ricaldone, tratto dal foglio-catalogo distribuito in occasione della due giorni - 25 e 26 novembre 2006 - di proiezioni, installazioni e dibattiti "mappe resistenti", tenutasi al Museo di Villa Croce a Genova.
Il sito dell'autore dell'articolo è questo.
MAPPE FRA UTOPIA E ATOPIA
di Sandro Ricaldone
Come affermava Archita di Taranto, filosofo e matematico di scuola pitagorica, ricordato da Orazio come “misuratore del mare e della terra e delle immensurabili arene”, “essere è essere in un luogo”. Asserzione incontrovertibile, ma problematica, giacché, anche dopo l’analisi del tema condotta da Platone nel Timeo, con la fondamentale distinzione fra chora e topos, Aristotele afferma che “la domanda ‘che cosa è un luogo?’ solleva numerose difficoltà. Sembra infatti che un esame esaustivo dei fatti pertinenti ci indirizzi verso le conclusioni più diverse”.
Non è compito nostro addentrarci nella storia filosofica di questo concetto, d’altronde già fissata in studi ponderosi, fra i quali citiamo en passant “The Fate of Place”, fondamentale volume di Edward S. Casey, pubblicato una decina d’anni fa’ dalla University of California Press. Né addentrarci nelle dispute della geopolitica, sul genere di quelle sollevate nel 1975 da Yves Lacoste nel provocatorio ma salutare “La géographie, ça sert pour faire la guerre”. Il nostro tema è, semmai la topo-grafia, la rappresentazione dei luoghi, dalle mappae mundi alle città virtuali esemplificate in Sim-City, ed i modi in cui le tecniche di questa disciplina sono state “incorporate” nell’arte a partire dal secolo scorso. Argomento portato all’onore delle cronache non soltanto da un più recente volume dello stesso Casey (“Earth-Mapping: Artists Reshaping Landscape”; University of Minnesota Press, 2005), ma da alcune esposizioni recenti (fra cui “Le dessus des cartes. Art et cartographie” ISELP, Bruxelles 2004) o addirittura in corso (“Voi (non) siete qui”, a cura di Maurizio Bettini e Omar Calabrese, Acciaierie di Cortenuova, BG).
“L’aspetto più interessante e nello stesso tempo più problematico, nel rapporto con il luogo” - dice Tacita Dean, rispondendo ad una domanda di Jeremy Millar – “è che non lo si può cogliere realmente. Abbiamo tutti l’impressione di comprenderlo o di poterlo identificare, ma in realtà ne siamo incapaci, salvo forse sul piano emozionale”. A questa insufficienza l’artista inglese propone di rispondere “lavorando in maniera associativa e non verbale, utilizzando mezzi e tecniche che siano in grado di descrivere un luogo indirettamente, in maniera tangenziale, per esempio attraverso il suono o il racconto”. Una presa di posizione, questa, che nel sottolineare i limiti d’un approccio descrittivo (“la mappa non è il territorio”, secondo la celebre espressione di Alfred Korzybski, il fondatore della General Semantics), parrebbe escludere l’attualità di un uso artistico della cartografia. Che invece, come s’è detto, trova ampio riscontro nelle pratiche contemporanee.
Alla base di questa, se non plurisecolare, certamente lunga fortuna, stanno differenti ragioni. In primo luogo la stimolazione immaginativa condensata nelle carte d’invenzione (“Ogni avventura dovrebbe iniziare con una mappa”, ha detto una volta Stevenson) . L’isola di Utopia vagheggiata da Thomas More o l’Atlantide disegnata da Athanasius Kircher nel “Mundus subterraneus”, ne danno conferma, così come la “Carte du Tendre”, rappresentazione topografica e allegorica del Paese dell’Amore, in cui l’amante deve trovare la via per raggiungere il cuore della sua dama, elaborata dagli habitués del salotto di Mademoiselle de Scudery e significativamente “riscoperta” dai Situazionisti. Sotto un secondo profilo la connotazione operativa, che ne ha fatto uno strumento duttile per la pianificazione o la ricostruzione di azioni, in particolare nel contesto urbano. Infine quello che potremmo chiamare il carattere convenzionale o persino “normativo” della carta, che conferisce una particolare risonanza alle alterazioni ed agli interventi distorsivi.
Nella specie si riscontra la presenza di inserti cartografici già nell’opera di autori appartenuti ai movimenti d’avanguardia (e non) del primo Novecento. Ne troviamo traccia ne “La Musa metafisica” (1917) di Carrà dove compare una cartina dell’Istria e in “Dada siegt. Eines Bürgerliches Präzisiongehirn ruft eine weltbewegung hervor” (1920) di Raoul Hausmann, sormontata da una sezione planisferica ove al profilo dei continenti è sovrimpressa la scritta “DADA”. Nel 1943 l’uruguayano Joaquin Torres-Garcia, esponente di Cerche et Carré e capofila del modernismo latino-americano, disegna una “carta rovesciata” del Sud-America, collocando al Nord, più ricco, le regioni emarginate della parte meridionale del continente.
E’ però con l’Internationale Lettriste che la mappa acquisisce un’autentica centralità. Anticipate da una straordinaria metagrafia di Ivan Chtcheglov, che sulla carta della metropolitana di Parigi inserisce la Persia e la Groenlandia, dalla pratica della dérive (“modo di comportamento sperimentale legato alle condizioni della società urbana: tecnica di passaggio accelerato attraverso ambienti diversi”) e dall’analisi psicogeografica (“studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico, coscientemente apprestato o meno, che agisce direttamente sul comportamento emozionale degli individui”) scaturiscono due fra le opere più conosciute di Debord: “Naked City” (1957), mappa decostruita in base a criteri di esperienze personali e sociali, e “Guide Psychogeographique de Paris: Discours Sur Les Passions D’Amour” (1957) un insieme di piattaforme psicogeografiche gravitanti sul centro di Parigi, costruito – dopo uno studio degli orientamenti tendenziali dei singoli quartieri – ritagliando la pianta della città ed accostando le diverse zone tramite frecce che rappresentano le inclinazioni che collegano naturalmente le diverse unità ambientali. Alla cifra debordiana appartiene anche la copertina del n. 8 (maggio 1956) della rivista belga “Les lèvres nues”, (in cui compare il saggio, scritto a quattro mani con Wolman, sui “Modes d’emploi du détournement”) dove, con una chiara connotazione di propaganda politica, nel perimetro della Francia i nomi delle città sono sostituiti, in segno di solidarietà con la lotta di popolo per l’indipendenza nazionale, con quelli della capitale e dei principali centri algerini. Ancora frammenti di cartine sono inseriti da Debord, in veste di “consulente per il détournement” ne “La fin de Copenhague” (1957) di Asger Jorn, mentre Ralph Rumney, nella “Guide psychogéographique de Venise” (1958) non ne farà uso preferendo ricorrere ad una documentazione fotografica sinteticamente chiosata.
Un intento spiazzante conserva la “Map to not indicate: Canada, James Bay, Ontario…” (1967) di Art & Language, in cui rimangono soltanto le sagome dell’Iowa e del Kentucky, che - separate dal loro contesto geografico - appaiono trasformate in isole circondate dal nulla, mentre una connotazione diversa, a metà strada fra la scoperta dell’archeologia industriale (ambito di ricerca proposto nel 1955 da Michael Rix) e la Land Art, assume l’operazione condotta da Robert Smithson nel 1967 in un percorso fra gli stabilimenti “della preistorica età della macchina” documentato dalla “Negative Map showing Region of Monuments along the Passaic River”. Il Terzo Mondo (sfruttamento economico, repressione, movimenti di liberazione) costituisce il principale soggetto della World Map dipinta nel 1972, con la consueta vivacità desunta dal mondo dei cartoons, da Öyvind Fählström.
In quello stesso anno si registra in Italia, ad opera di Eugenio Miccini, la proposta di un “Piano regolatore insurrezionale della città di Firenze”, una serie di tavole (pubblicate, con una prefazione militante, dall’editore Sampietro) nel quale si disegna il piano di una rivolta non violenta: “all’ora “x” tutti i dipendenti del servizio trasporti, i pompieri (poliziotti, militari di ogni arma, sabotate i materiali di guerra!), impiegati comunali, ferrovieri, tassisti, camionisti, motociclisti, automobilisti, tutti coloro che dispongono di un automezzo di qualsiasi tipo, occupino tutti gli spazi pubblici, fermino i treni sulle rotaie, blocchino il traffico dovunque… la popolazione disarmata occupi, la notte prima, tutti i luoghi storici della città – monumenti, musei, biblioteche, chiese, palazzi, monasteri, collezioni d’arte e li difenda con la sua sola presenza …”.
Marcel Broodthaers, antico membro del gruppo surrealista-rivoluzionario belga, realizza nel 1975 un minuscolo “Atlas à l’usage des artistes et des militaires”, delle dimensioni di una scatola di fiammiferi, nel quale ogni nazione ha la stessa grandezza, ad indicare un’utopistica prospettiva di equiparazione, su scala mondiale, delle culture. Wim Delvoye, anche lui belga ed autore a sua volta di un atlante (1999), nasconde nelle sue carte immaginarie i profili di oggetti della cultura materiale: teiere, caffettiere, martelli ed un ormai non più trasgressivo fallo in erezione.
A partire dallo scorso decennio, comunque, gli esempi si moltiplicano: l’irlandese Kathy Prendergast, nell’intento di “rendere strano il mondo” ridisegna a mano le piante delle città capitali o compone cartine che riportano luoghi i cui nomi evocano sentimenti di sfida, sorpresa, perdita; Guillermo Kuitca, argentino, dipinge mappe su divani e materassi, oggetti “dove luoghi ed esperienze trovano un loro nome ed il mondo viene posto a portata di mano”. Altri, come Françoise Schein, praticano la “geografia del rimosso”, lavorando nelle favelas di Rio, inesistenti sulle piante ufficiali, per ricostruirne una carta che restituisca un’identità ai suoi abitanti, laddove - al contrario - l’artista sud-africano Moshekwa Langa riforma la carta del mondo cancellandone le tracce delle guerre di conquista e del colonialismo. Joyce Kozloff, a sua volta, rovescia il mappamondo in uno spazio sferico accessibile, le cui pareti interne riportano l’indicazione delle località colpite da bombardamenti americani nei diversi continenti.
A conclusione di questa sommaria rassegna è giusto citare, per il respiro internazionale che ha assunto il suo lavoro, Luca Vitone, artista di nascita e formazione genovese che sulla dimensione culturale dei luoghi e sulla cartografia si è concentrato in modo particolare. Le sue “carte atopiche” (1988-1992), mappe da cui sono stati cancellati tutti i nomi, con le quali si inaugurava il percorso di Empowerment, la mostra allestita nel 2004 da Marco Scotini, proprio qui, a Villa Croce, sono ad un tempo segnali del rischio di una totale perdita della memoria, di un azzeramento delle differenze e delle specificità costruite nella vicenda storica. Questo non esclude però, come ha osservato Andrea Lissoni in una recente intervista, “che la carta atopica abbia una forte dimensione suggestiva, che inneschi immaginazione, che spinga a ripensare le proprie mappe e i propri posizionamenti” …
(12 novembre 2006)
Intervento al Convegno “Mappe resistenti”
Museo di Villa Croce
25-26 novembre 2006