**le forme emergenti dell'abitare** il workshop, il conflitto e il cantiere 1/3
Un workshop tenutosi tra il 19 e il 26 novembre 2005 in cui gli studenti della facoltà di architettura di Roma 3 avrebbero dovuto progettare le stanze di uno spazio pensato per il loro stesso stile di vita. Un'aula, il padiglione b2 nell'ex mattatoio, al centro di un conflitto per la sua destinazione tra il comitato studentesco e la presidenza. Un cantiere per raccogliere materiali e costruire in pochi giorni ciò che era stato progettato. E infine un evento artistico e una festa che ne avrebbero occupato tutte le pieghe. Diviso in tre parti qui troverete il momento teorico, quello progettuale, di raccolta dei materiali e di cantiere e quello finale, ad opere concluse. Inoltre in "immaginario" posteremo la documentazione dell'evento artistico (evento osi 05) con cui si è festeggiata la conclusione di questa avventura voluta più di ogni altro dalla prof.ssa Elena Mortola.
COME SI PRODUCONO I LUOGHI
Appunti per l’intervento previsto del CRLS
Gli studenti saranno introdotti all’approccio socio-spaziale all’abitare e al concetto di “luogo antropologico”. Per quanto possa sembrare strano la sociologia ha cominciato a interessarsi esaustivamente delle tematiche dell’abitare solo dopo una lunga maturazione dei suoi strumenti interpretativi. Un salto di qualità è avvenuto solo a partire dalle ricerche della Scuola di Birmingham (si veda il lavoro di Richard Hoggart ad esempio) sulla cultura popolare urbana britannica negli anni ’50 e ‘60. Non che l’abitare non fosse mai stato prima oggetto d’indagine, si pensi ai celebri studi di Engels e di Le Play sulla condizione abitativa dei lavoratori a Londra e a Parigi, si pensi alle ricerche dell’etnografia (e anzi l’attualità delle ricerche di Engels e Le Play è proprio nella loro metodologia di tipo etnografico), ma si è trattato di casi sporadici ed esemplari e questo perché non si era ancora arrivati a una piena valorizzazione dell’abitare.
Per spiegare l’approccio socio-spaziale contemporaneo all’abitare si ricorrerà all’analogia con il processo di produzione e consumo dei materiali culturali. Fino alla Scuola di Birmingham questo processo vedeva una singolare simmetria tra i critici della cultura di massa (Scuola di Francoforte) e i teorici della solidarietà organica (Scuola sociologica francese, Studi di Comunità), se quest’ultimi attribuivano, a seconda degli orientamenti, ai valori tradizionali, politici o religiosi, o ai media il ruolo di provvedere a creare i legami necessari a tenere unita la società-organismo, a ridurre le dinamiche di “anomia”, la teoria critica, di contro, vi vedeva strumenti per la manipolazione della coscienze e la creazione di bisogni indotti. L’ambito della vita quotidiana era visto in entrambi i casi come un ricettacolo passivo che incamerava materiali culturali provenienti dall’esterno o il luogo del dramma delle comunità deterritorializzate.
Le ricerche della scuola di Birmingham dimostrarono che il consumo di materiali culturali era tutt’altro che passivo, ma si presentava come una forma di rielaborazione, che variava e innovava i materiali culturali, una forma di vera e propria “produzione” attraverso cui un gruppo sociale continuava a confermare la propria identità e le proprie aspettative. Si metteva cioè in discussione il modello dell’ “ago ipordemico”, e cioè del fatto che l’emittente del messaggio decideva anche quale fosse il criterio interpretativo del ricevente. Emergeva un nuovo modello, sviluppato poi in Italia da Umberto Eco, chiamato “encoding/decoding” model, e cioè il ricevente è tutt’altro che passivo, le sue aspettative radicate nella sua condizione socio-economica e nella sua formazione culturale determina un’interpretazione del messaggio non prevedibile dall’emittente. E’ chiaro che questa scoperta ha avuto ripercussioni anche in altri ambiti che non fossero esclusivamente quelli di cui oggi si occupano le scienze della comunicazione. Tra questi l’abitare. L’abitare da questo momento in poi non poteva più essere considerata una forma passiva determinata dallo spazio progettato, ma una forma dell’essere al mondo che riorganizzando lo spazio di vita, lo rielaborava, innovava e talvolta inventava.
Da qui l’importanza delle forme di uso dello spazio per indagare l’abitare, dalle forme di uso disseminate ovunque che organizzano lo spazio domestico, pratiche pressoché invisibili che spesso sono portatrici di rielaborazioni interessanti di cui solo l’antropologia si era sempre occupata, alle forme di uso “improprio” o creativo degli spazi in interni ed esterni (si veda l’esperienza di OSI) o, ad esempio, a quelle degli spazi pubblici che ne spezzano la destinazione funzionale. Il termine “improprio” non sta per “sbagliato”, ma per imprevisto, una forma di uso che non rientra nell’organizzazione prevista dello spazio, nei suoi pattern decisi a tavolino. L’importanza di una attenzione costante degli architetti e degli urbanisti per le forme dell’abitare, soprattutto per le forme “emergenti” dell’abitare, cioè per quelle forme dell’abitare che innovano i costumi di una società, che rappresentano le mutazioni sociali in atto, è allo stesso tempo dovuta al ruolo dell’architetto e dell’urbanista, al fatto che il loro ruolo richiede sempre un certo grado d’impegno sociale e al fatto che l’abitare è una riserva inesauribile per l’ideazione, in quanto è qui che si trovano le soluzioni più interessanti per gli scenari futuri dell’organizzazione dello spazio.
Come le imprese che si occupano di creatività e innovazione hanno bisogno di un continuo feedback con le invenzioni che prosperano ovunque nella vita quotidiana, così gli architetti e gli urbanisti dovrebbero sempre interessarsi dell’uso dello spazio nella vita quotidiana, l’uso che viene dal basso. Se l’azione del mercato tende a cancellare i luoghi, a produrre “non luoghi” - si spiegherà il concetto antropologico di non luogo in Michel de Certeau e la fondamentale influenza sul suo lavoro, rilevata solitamente negli studi mediologici ma mai in quelli urbani, della scuola di Birmingham-, l’uso li produce. Il workshop sarà finalizzato alla produzione di un luogo attraverso la sperimentazione di una progettazione partecipata ibridata con il metodo antropologico, cioè “partecipante” (la partecipazione non si riduce al momento del progetto), il prototipo di uno spazio sociale polifunzionale fatto dagli studenti per gli studenti, il cui destino dovrà passare per le loro decisioni e mobilitazioni.
La produzione dei luoghi: che cosa sono le forme emergenti dell’abitare?
Intervento di Daniele Vazquez -CRLS- per lo step teorico del seminario “Le forme emergenti dell’abitare”.
1.
La teoria sociale dello spazio non ha mai dato troppa fiducia agli utenti, ai consumatori, agli spettatori, agli abitanti, ecc. In una significativa simmetria tra i critici della cultura di massa e gli specialisti della comunicazione si è ritenuto per molto tempo che la gente fosse manipolabile: dall’industria culturale, dai media, dalla propaganda. Che nell’uso vi fosse un bisogno indotto. In parte è così, ma non lo è del tutto. Il messaggio che arriva all’utente dev’essere decodificato, e la decodifica non è detto che sia quella che si aspettava l’emittente. Per quanto riguarda l’abitare, l’uso di uno spazio è una forma di appropriazione di un “oggetto” prodotto da altri. In questo uso, in questa appropriazione, il soggetto si ancora all’ambiente, lo ridefinisce, lo riconfigura, determina le coordinate e un sistema di lettura dello spazio che chiamiamo “abitare”, un sistema di lettura dello spazio che è anche un sistema di produzione dello spazio che segna uno scarto dallo spazio progettato, così come nell’uso della merce spesso se ne fa un uso che non ne fa un semplice oggetto da consumare, ma anche un veicolo di affettività e soggettività non previsto. Quello che risulta difficile da accettare per un architetto, modernista o postmodernista (un Eisenman ad esempio) o anti-modernista (un Salingaros ad esempio) è che non sempre sono prevedibili le forme dell’uso, per cui non è facile favorirle o ostacolarle, sfuggono alla progettazione. Non sono mancati tentativi di elaborare metodologie per avvicinarsi alla dinamica antropologica dell’uso dello spazio, basti ricordare le ricerche di Kevin Lynch o quelle realizzate nel contesto disciplinare della geografia umana sullo “spazio vissuto” e sulla percezione del paesaggio urbano, in questo caso l’architetto o l’urbanista ha dovuto ricorrere alla collaborazione delle scienze sociali: psicologi, sociologi e antropologi.
2.
Si potrebbe pensare che poiché l’uso si limita ad appropriarsi di materiali che esso non contribuisce a produrre, cioè che ad esempio le forme dell’abitare si limitano a ad appropriarsi di uno spazio così com’è, si tratti in fondo di una forma di appropriazione passiva. Non è del tutto così, più che di passività si tratta, per usare una metafora polemologica molto amata da De Certeau, di tattica. Ovvero dato uno spazio, uno spazio che è lo spazio, diciamo, del nemico, l’utente è costretto a muoversi in un terreno che non è il suo, ma se non potrà muoversi strategicamente, cioè progettare, si muoverà allora tatticamente, decidendo di volta in volta ciò che è più conveniente, e questo non significa che si muoverà passivamente. L’uso è quasi sempre tattico e non passivo. Ma in certi casi l’abitante può contribuire alla produzione dello spazio progettato, e questo è il caso della progettazione partecipata. In altri casi alcune minoranze attive fortemente motivate possono decidere di non aspettare gli urbanisti o gli architetti e trovare soluzioni immediate. Si tratta spesso della mobilitazione di una rete sociale senza luogo, di un luogo antropologico deterritorializzato, che decide di produrlo da sé. Qui l’uso si mostra anche come una forza di innovazione e di invenzione. Questo uso che innova e che produce luoghi è ciò che chiamiamo “le forme emergenti dell’abitare”.
3.
Vi è quindi un primo livello dell’uso, diffuso, che riguarda tutti, che concerne la vita quotidiana. L’uso della propria casa, delle sue stanze, dei suoi ambienti che è anche una forma di organizzazione e produzione dello spazio vissuto. Così come l’uso degli spazi pubblici, attraverso ad esempio la pratica del camminare. E un secondo livello dell’uso, che riguarda gruppi sociali che tentano di porre rimedio a delle mancanze obbiettive producendosi da soli la soluzione. Questo tipo di uso si appropria dello spazio in forme innovative e suggerisce soluzioni interessanti anche per l’architettura e l’urbanistica. Un caso di questo tipo di uso è rappresentato dal progetto “occuparespazinterni”, qui un network di artisti parte dalla constatazione della mancanza di spazi per l’arte, o della loro difficile accessibilità, e propone una soluzione originale, quello di utilizzare lo spazio abitativo, le case, come scenario artistico, dall’arte visuale al teatro. E’ da un certo punto di vista un “uso improprio”, improprio non nel senso di sbagliato, ma che riorganizza lo spazio della casa in una maniera che quello spazio non prevedeva, va oltre le sue funzioni abituali, suggerendo che anche quella di produrre degli spettacoli artistici nello spazio abitativo possa essere una funzione possibile. Di questi usi impropri, cioè di usi che vanno al di là delle funzioni previste per un dato spazio, e che suggeriscono quindi nuove soluzioni per l’abitare se ne trovano molte anche negli spazi pubblici. Di recente abbiamo conosciuto degli studenti della facoltà di architettura Roma 3 che stavano preparando una tesi proprio su questo tipo di uso degli spazi pubblici, la loro ricerca si concentrava sull’uso originale e improprio che ne facevano alcuni gruppi di migranti, ad esempio quello di creare delle cucine comuni in ritagli di spazio pubblico. Si tratta anche qui di produzione di luoghi. Un caso ben documentato dalla ricerca sociologica è l’uso di non luoghi con la finalità di produrre luoghi antropologici. Questo tipo di produzione dei luoghi antropologici dentro i non luoghi è stata rilevata anche da De Carlo, il quale si chiedeva se, in segreto, non si stessero sperimentando nuovi modi di creare luoghi nei non luoghi. De Carlo ha scritto: “Un “luogo” è uno spazio abitato. Senza lo spazio non può esserci luogo, ma lo spazio in sé non basta a fare “luogo”, perché uno spazio diventa luogo se e quando è esperito, usato, consumato e perennemente trasformato dalla presenza umana” (Domus 872, luglio/agosto 2004).
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I non luoghi hanno anche un altro nome, più utilizzato in sociologia e in economia politica, un termine più tecnico: “spazio-dei-flussi”. Con questo termine s’intende lo spazio del mercato. C’è chi l’ha utilizzato per descrivere la nascita del mercato nella modernità, dall’attività mercantile capitalista nel XIII secolo al mercato globale di oggi. Così allo spazio dei luoghi, lo spazio del villaggio, del paese, del quartiere, lo spazio dell’abitare, si contrapponeva lo spazio delle fiere e dei mercati, che era anche paradossalmente lo spazio della festa, nel quale da ogni paese vicino accorreva la gente per vedere e comprare le mercanzie. Ma anche per incontrare altra gente e assistere agli spettacoli delle compagnie teatrali itineranti. Si trattava di un vero e proprio sistema diffuso in tutta Europa, quello delle fiere, che seguiva le traiettorie dell’attività dei mercanti. Questi spazi e queste traiettorie erano degli spazi dei flussi, flussi di mercanzie, di notizie, di immagini, di spettacoli. E’ interessante notare che nello spazio della fiera, al suo interno o accanto a esso, si produceva sempre uno spazio dei luoghi, quello della festa e della piazza. Dico questo per rendere più chiaro che il non luogo altro non è che lo spazio del mercato, e che l’uso “improprio” popolare di questo spazio produceva la festa. La natura del mercato è quella di detestare le frontiere, i limiti fisici e antropologici, esso tende sempre all’espansione, a spostare limiti e frontiere, a gettare ponti, ha una vocazione universalistica. In questo ha del positivo e del negativo. L’aspetto positivo è che ha sempre fatto incontrare popoli diversi cercando di trovare punti d’incontro su interessi in comune, l’aspetto negativo è che non si fa scrupoli a spazzar via una cultura se questa costituisce un limite alla sua espansione. Il flusso è questo, il suo contrario “il luogo antropologico” costituisce sempre un limite, almeno così pensa la maggior parte degli economisti.
5.
Quella tra spazio-dei-flussi e spazio-dei-luoghi non è una dialettica pura come si potrebbe pensare. Un filosofo come Deleuze l’ha spiegata bene attraverso i concetti di “spazio liscio” e “spazio striato”, di “deterritorializzazione” e “riterritorializzazione”. Si tratta di un movimento ondulatorio. Un luogo antropologico è sempre un territorio, l’azione dei flussi tende sempre a deterritorializzarlo, ma non all’infinito, ma solo finché non si produce una riterritorializzazione. Un nuovo territorio, un nuovo luogo antropologico. Lo spazio striato del luogo antropologico viene reso liscio per facilitare i flussi, ma solo per essere striato di nuovo. Cosa significa in concreto? Significa che se una cultura viene travolta dal mercato, che se il suo spazio striato viene “allisciato” dall’azione del mercato, e spesso non si tratta di un movimento indolore, quella cultura, attraverso l’uso di cui abbiamo parlato fin’ora, si riapproprierà a sua volta dei prodotti del mercato, prodotti “astratti”, cioè che hanno quella vocazione universalistica di cui dicevamo, se ne riapproprierà a suo modo, localmente, iscrivendoci la propria soggettività. Così mangiare un hamburger da Mc Donald’s a Roma è molto diverso dal mangiare quel medesimo hamburger in Polinesia. Perché l’uso è diverso, e il consumo di quell’hamburger in Polinesia viene interpretato come un elemento del proprio sistema di credenze e non del nostro o di quello del signor Mc Donald. Ai manager di Mc Donald dopo tutto poco interessa quale sia questo sistema di credenze, basta che si mangi i loro hamburger. A noi invece interessa in quanto questo ci indica che si continua a produrre un luogo antropologico. Lo spazio viene striato di nuovo. L’uso ha continuato a produrre un luogo antropologico.
6.
Ora noi potremmo decidere di occuparci solo dello spazio così come lo produce il mercato. Potremmo interessarci solo dei non luoghi e degli spazi-dei-flussi. Le riviste di architettura sono piene di esempi di quali possibilità offra il mercato per la sperimentazione formale. Ma così facendo perderemmo di vista l’altro lato del processo di produzione dello spazio nella nostra epoca, che è quello dell’uso, quello prodotto dall’abitare. Interessarsi alle forme emergenti dell’abitare è fondamentale per due motivi: il primo è che qui si prefigurano scenari per il futuro carichi di promesse, sia per chi abita sia per architetti e urbanisti, i quali qui potranno sempre trovare una riserva inesauribile per l’ideazione; il secondo è che le soluzioni ai guasti della pianificazione urbanistica e del progetto urbano si possono trovare solo con un rapporto continuo con gli abitanti. In varie forme, tra cui come abbiamo detto quello della progettazione partecipata, oppure della ricerca sul campo alla maniera dell’osservazione partecipante degli antropologi (oppure un’ibridazione della progettazione con la metodologia antropologica, quella che noi chiamiamo “progettazione partecipante”), e cioè ci dovrebbe essere sempre un sistema di feedback tra progettazione e abitare. C’è chi sostiene che tutto si risolva nell’ambito del mercato, ma quegli urbanisti e quei sociologi che lo sostengono ignorano che spesso ad inventare stili di vita e immaginari sociali non è il mercato, ma proprio l’uso. Il mercato quando scopre queste invenzioni le fa sue certamente, le trasforma in merci o in forme di marketing, questo vuol dire però che se ci fermassimo al mercato rimarremmo sempre un passo indietro rispetto al divenire delle nostre società.
7.
Partire dall’uso dello spazio oggi non può che portarci a rilevare la profonda mutazione antropologica dei luoghi. Un esempio è il passaggio nelle metropoli dai luoghi comuni ai luoghi singolari. Il luogo comune è un luogo tipicamente urbano. I luoghi comuni sono territori fragili che sostituiscono il territorio della Gemeinschaft: in un borgo dove tutti si conoscono vi sono solidarietà che non hanno bisogno di luoghi comuni. Invece nella città ognuno è spesso sconosciuto all’altro eppure ne condivide lo spazio: questo spazio è un luogo comune. Qui frasi fatte e scontate, ricostruiscono in continuazione, come in un rituale, un luogo che permette alle grandi differenze prodotte dalla città di convergere in una comunità immaginaria. Oggi i luoghi comuni stanno scomparendo insieme alla città moderna. Che ne sarà della comunità immaginaria urbana che i luoghi comuni contribuivano a tener viva? La comunità immaginaria della città moderna sembra disperdersi con la dispersione dello spazio abitato, frammentandosi in segmenti, stili, reti, sottoculture, comitive, tribù, mute, bande. I luoghi di questa frammentazione sociale sono diventati luoghi singolari, e occorrerà attrezzarsi per indagarli e comprendere le forme dell’abitare che vi prosperano, quelle che chiamiamo “emergenti”, a quali scenari futuri alludono.