Nel 1915 Patrick Geddes scriveva: “Per mettere a fuoco questi sviluppi, queste trasformazioni anzi, della idea tradizionale di città e campagna nella quale siamo stati allevati, e esprimerli in maniera più evidente, abbiamo bisogno di qualche piccola aggiunta al nostro vocabolario; ogni nuova idea, infatti, per la quale manchi la parola adatta merita che ne sia coniata una appositamente. Costellazioni non possiamo chiamarle, agglomerati, ahimè, farebbe già più al caso nostro, ma potrebbe suonare offensivo; e se le chiamassimo conurbazioni? Questa è forse la parola giusta, espressione di una nuova forma di raggruppamento demografico che sta già sviluppando, in maniera per così dire subconscia, nuove classi sociali e nello stesso tempo anche nuove forme di governo e amministrazione”.

arresti domiciliari 01 - foto renata iafrate

CASA MANGIA CASA: APPUNTI SULLA CITTA’ TOTALE E LA CAMPAGNA POSTMODERNA

Le conurbazioni occidentali di oggi non sono il risultato di città compatte che sono cresciute fino al punto di unirsi tra loro e divenire un’unica realtà urbana:  da una parte abbiamo città che crescono verso l’esterno e dall’altra una campagna che si urbanizza da se stessa in modo disseminato e disperso e che avanza fino ad accerchiare e annettersi quelle città. Ci troviamo, così, dinnanzi alla prefigurazione  di una vera e propria nuova forma di città che non è più la città diffusa individuata da Indovina fin dal 1990. Oggi assistiamo a processi di densificazione e ri-sinechizzazione della dispersione urbana che producono micro-conurbazioni. Le micro-conurbazioni sono grumi di città diffusa che si estendono verso le città e finiscono per inglobarle. Abbiamo così una dialettica leggermente diversa dalla precedente.

L’auspicio di Marx ed Engels di una fine della dialettica tra città e campagna si è realizzata, ma la sintesi non è avvenuta all’interno di un orizzonte rivoluzionario, sono stati un mix di dinamiche di mercato e di diffuso comportamento individualista sprezzante della legalità a produrla. Anche la dialettica tra spazio compatto e spazio disperso, tra città concentrata e città diffusa, negli spazi urbani più avanzati  e dove è più evidente la fine del ciclo della città postmoderna, sembra trovare una nuova sintesi: quando l’urbanizzazione delle campagne diviene una nuova forma di città che include discontinuamente spazi a bassa densità  e spazi ad alta densità e quando questa città ingloba nelle sua diramazioni le stesse città compatte, quando questo territorio  comincia ad acquisire certe sue tipiche regolarità ci troviamo dinnanzi a una radicalizzazione dell’urbanesimo e non secondo certe narrazioni ormai tradizionali alla fine della città o della metropoli.

Abbiamo sostenuto altrove che le teorie che dichiarano la ”fine della città” e coniano per un ordinamento spaziale ancora opaco una parola con il prefisso “post” nascondono in realtà un momento di stagnazione dei loro strumenti di ricerca e di interpretazione. Si guardi al ciclo della città postmoderna: si possono individuare con impressionante precisione tre fasi di questa e della postmodernità stessa attraverso tre momenti di criticità della teoria urbana, ovvero tre momenti in cui la teoria urbana è stata incapace di cogliere l’ordinamento spaziale emergente: post-city (Melvin Webber  1968), post-urbano (François Choay 1990) e post-metropolis (Edward Soja 2000). La fine della città postmoderna coincide con una città discontinuamente densa o a diversi livelli di densità che comprende sia le città compatte sia quelle disperse, fenomeno di radicalizzazione del divenire-città dello spazio europeo contrariamente a chi parla di una fine o di un dopo della città.

A questa radicalizzazione della città corrisponde come suo negativo una radicalizzazione dello spazio a bassa antropizzazione.  Nel centro-sud possiamo vedere in filigrana i processi descritti nel saggio “La città diffusa” di Indovina. I vari momenti qui sono sincronicamente compresenti e abbiamo zone dove le tre dialettiche, quella tra città e campagna (corrispondente alle città moderne) , quella tra città compatta e città diffusa (corrispondente alle città postmoderne) e quella tra radicalizzazione del divenire-città e radicalizzazione dello spazio a bassa antropizzazione sono tutte rilevabili contemporaneamente.  

Qui possiamo vedere in atto le teorie di Indovina, con declinazioni antropologiche e culturali diverse rispetto a quelle del Veneto centrale del decennio 1980-1990. Ma anche qui è valido ciò che Indovina diceva della prima fase dell’urbanizzazione diffusa, ovvero che fosse costituita dall’abbandono del lavoro agricolo da parte dei contadini per via del loro miglioramento economico. Indovina scrive: “il miglioramento economico degli strati sociali prima legati all’attività agricola, e il loro abbandono del settore primario a favore di quello secondario, ha spinto questi stessi strati a dare forma visibile a tale miglioramento e modifica la cultura (in senso antropologico) attraverso la “casa”, quasi sempre monofamiliare, autopromossa (spesso autocostruita) da insediare o in aree di proprietà degli stessi (o di parenti) o in aree agricole di minor prezzo. Il nuovo, cioè, si sposa con il modo di pensare antico; c’è una modifica di tipologia ma continua a prevalere la cultura della ‘roba’”.

Questa prima fase è l’innesco che arriva a produrre la città diffusa e queste scintille che provocano l’incendio della prateria sono ancora visibili, una modalità è quella che in modo molto chiaro indicano le foto scattate nel centro Italia che abbiamo inserito nella gallery. Quando, poi, alla fine del ciclo della dispersione iniziano a manifestarsi ovunque fenomeni di micro-conurbazione si può prefigurare l’avvento di  una meta-città o città totale che ha come suo negativo la deruralizzazione radicale e in modi imprevedibili della campagna. Per deruralizzazione della campagna non intendiamo affatto la sua urbanizzazione, ma al contrario un contro-movimento che restituisce porzioni della campagna, intesa come lo spazio antropizzato per svilupparvi l’agricoltura e l’allevamento, a spazi a bassi tassi di antropizzazione, a processi di straforo e imprevisti  di ri-naturalizazzione degli spazi, con  fauna e vegetazione fuori controllo.

Il processo che porta alla meta-città o città totale e, allo stesso tempo, al ritorno del rimosso, ovvero a spazi naturali fuori controllo è dovuto alla stessa causa: l’abbandono del lavoro tipicamente rurale da parte dei contadini. Vi è così una radicalizzazione dell’urbanesimo e una radicalizzazione degli spazi non antropizzati. Questa è a nostro avviso la nuova dialettica dello spazio italiano e europeo. Quindi, piuttosto che parlare di “post-metropoli” dovremmo parlare di fine della campagna tradizionale, di un momento post-rurale delle società europee. Dove qui “post” sta proprio a indicare la stagnazione della ricerca su questo nuovo fenomeno di cui abbiamo ancora poche informazioni e poche teorie utili.

Questo movimento ha conseguenze antropologiche esplosive e occorrerà esplorarle in un altro contesto.

Abbiamo già scritto altrove come lo stile di vita degli abitanti della città diffusa che ci sembra di poter ritrovare in quella che Peter Sloterdijk chiama “poetica della vita sottocoperta” abbia profondamente influenzato quello degli abitanti della città compatta.  Di contro, all’interno del processo di post-ruralizzazione non solo vi è la sostituzione dei contadini che hanno abbandonato la vita rurale con migranti che spesso gestiscono una intera micro-filiera del lavoro agricolo, ma anche l’apparire in questo settore di lavoratori precari provenienti dalla middle class urbana. Alla seconda e  terza fase della città diffusa (classi meno abbienti che cercano di risolvere da sé la questione delle abitazioni cercando una casa fuori porta e fuga dalla città delle classi medie) si aggiunge ora una quarta fase che vede coinvolti migranti e precari di seconda generazione,  protagonisti di un nuovo mutamento demografico della città diffusa e una delle cause delle sue micro-conurbazioni. Migranti e precari di seconda generazione spesso sono anche coloro che scelgono di divenire agricoltori e allevatori.

Dunque, ci sembra di poter dire che proprio ora che nelle società occidentali a far le spese dei generali processi di urbanizzazione radicale dello spazio e di ricomparsa di zone a fauna e vegetazione fuori controllo è la campagna, proprio ora che la campagna scompare dal concreto orizzonte spaziale, proprio ora la middle class, in crisi, impoverita e delusa dalle aspettative di benessere tradite dal capitalismo altermoderno, costruisce una narrazione e una mitologia del paesaggio, della campagna e della vita rurale come si diceva un tempo “iper-reale”,  che ha come decisiva conseguenza la trasformazione per la prima volta della domanda di lavoro nei settori dell’agricoltura e dell’allevamento come socialmente attraente anche per gli abitanti urbani in cerca di occupazione. Questi settori hanno acquisito certe caratteristiche del terziario e forse ciò che temporaneamente chiamiamo post-rurale non è altro che l’avvento della campagna postmoderna laddove si consuma la fine del ciclo della città postmoderna.   

Foto di Renata Iafrate

Testo di Daniele Vazquez e Laura Martini