L’immagine, l’imprevisto e il progetto
Dal 26 novembre al 5 dicembre del 2004, si è tenuta la mostra di fotografie “L’immagine, l’imprevisto e il progetto” di Laura Martini in occasione dell’evento “Zoom”. “Zoom” era un’evoluzione del progetto StudiAperti, dove esposizioni, performance e reading avvenivano contemporanemente in atelier aperti al pubblico, dislocati su tutto il territorio metropolitano di Roma. Durante l’evento il CRLS ha anche distribuito un testo dal titolo “Il progetto è poetico”. Questa mostra è il primo intervento del CRLS a pochi giorni dalla sua fondazione.
Il progetto è poetico
Una recente pubblicità della chiesa cattolica sull’8 per mille ci ha strappato un amaro sorriso: ci saremmo aspettati di vedere una carrellata sulle edificanti opere della chiesa nelle favelas brasiliane, nelle baraccopoli messicane o nelle zone povere e degradate del’Africa e invece ci si para davanti un tipico prete di campagna, insieme affabile ed energico, un difensore dei deboli insomma, che la camera segue di spalle: egli risale dal buio ed entra su una scena imprevista: un angolo di vita sociale a Corviale! Certo questa pubblicità è in linea con le teorie sul terzo mondo in casa nostra, ma, insomma a noi è sembrato anche un messaggio ironico agli architetti: ci vuole un miracolo a salvarci dall’architettura!
Un paio d’anni fa alcuni intellettuali hanno lanciato una parola d’ordine per gli architetti: “il progetto è politico”. La metropoli secondo la loro concezione si limita ad essere “una proiezione spaziale dell’azione del mercato nel mondo”. In questa prospettiva il consumo si presenterebbe come una forza in grado di far cadere le barriere tra centro e periferia, di sprigionare una nuova domanda di libertà, di costringere l’architettura a criticare le proprie categorie tradizionali e a rinunciare in questo modo alla propria centralità e al proprio ordine istituzionali. Scagliandosi contro l’omologazione e l’assenza di eventi del “sistema di mercato” (quello stesso sistema che quando sono di buon’umore elogiano) proponevano il progetto come teoria e prassi politiche, come tattica che, dentro la crisi dello stato, sappia fondare con Cacciari un “insularità insuperabile del separato”, un “separato” che non cerca sintesi, un individuale assoluto. Forti di questa lettura, nonostante i propositi di sovversione dell’architettura di questo gruppo di intellettuali, abbiamo avuto l’impressione, guardando per la prima volta la pubblicità di cui sopra che, piuttosto, per ora, “il progetto è ‘patetico’” (dove per patetico si veda il noto saggio di Schiller: gli architetti che vivono il moderno come fonte di sofferenza o insofferenza).
Faremo un esempio: pur apprezzando molto le analisi che Richard Ingersoll fa sullo sprawl, quando dalla pars destruens passa alla pars costruens, cioè laddove il progetto si fa appunto politico, propone come una delle soluzioni all’”apocalisse già avvenuta” niente meno che l’ “agricivismo”! Parolina un po’ naïf. Usandola, Ingersoll ci ricorda proprio quel pretino di Corviale, come quel pretino può muovere a simpatia ma, allo stesso tempo, non riusciamo proprio a vedere come “politica” una soluzione che ci sembra palliativa. In questo senso intendiamo che il progetto è patetico. Forse il problema è all’origine, cioè proprio da dove siamo partiti, dal progetto come teoria e prassi politiche. Si vuole un progetto che sia una tattica, che rompa definitivamente con le categorie del pensiero moderno, che sfrutti le potenzialità liberatorie del consumo e allo stesso tempo trovare “soluzioni politiche”. Ma la politica è a sua volta una pratica che non può limitarsi alla tattica, che è ancora impastoiata completamente nelle categorie del pensiero moderno, che in mancanza di orizzonti di largo respiro si limita a “gestire” il mercato. O si sostiene che il consumo è un fenomeno incontrollabile e ingestibile, la chiave interpretativa per spiegare ogni paradosso del postmoderno e quindi si abbandona anche qualsiasi pretesa di progetto politico, qualsiasi progetto di “gestione”, oppure si ammette che le promesse di libertà del consumo sono del tutto illusorie, tanto più illusorie in un’epoca in cui il consumo come libertà è prerogativa di uno solo dei due lati dell’attuale polarizzazione sociale metropolitana, quella dell’èlite globale. Il vincolo di bilancio dell’altro lato della polarizzazione si restringe e con esso le formidabili libertà di scelta che il consumo offrirebbe, si consuma sempre di meno per scelta. Da questo lato la vita si fa precaria e incerta, priva di garanzie e protezioni e i desideri che emergono dalle nuove soggettività coinvolte in questa situazione non sono più legati al consumo, così come fu per le generazioni precedenti, dagli anni ‘50 fino alla fine degli anni ’80. La concezione del consumo come libertà dell’individuo non è che il residuo di un’utopia postmoderna superata, in cui attraverso la crisi del lavoro industriale si apriva lo scenario di una società del tempo libero, lasciando immaginare e in parte fu davvero così, che nel tempo libero si sarebbe giocata la partita per le libertà individuali. Ma siamo già ben oltre questa dicotomia tra lavoro e tempo libero, e oggi il progetto si fa politico in ambiti più decisivi che non in uno di questi due lati della vecchia barricata.
Nella società del non lavoro la politica dal basso diviene postpolitica e la postpolitica si gioca su una zona liminare tra lavoro e tempo libero, quella zona di esistenza che quel lavoro così differente dal lavoro industriale che è il lavoro flessibile e precario produce, in cui lavoro strictu sensu e tempo libero sfumano l’uno sull’altro. Eppure la modernità sopravvive formalmente, continuando a imporre le sue categorie formali ad una nuova civiltà materiale. Si continua ad esempio a tenere agganciato il reddito alla prestazione. Nel momento in cui si riuscirà a sganciare il reddito dalla prestazione, si aprirà davvero la prospettiva di una società radicata nel tempo libero e non nel lavoro. Per ora, nonostante tutte le trasformazioni materiali, viviamo ancora in un mondo formalmente moderno. Si è entrati ed usciti nel/dal postmoderno dallo stesso punto e ci ritroviamo in fondo proprio al punto d’inizio, in una modernità sopravvissuta a se stessa, in cui non rimane che rimboccarsi le maniche come hanno fatto i nostri padri. Il progetto si fa politico nel momento in cui si adopererà a riconoscere la generalizzazione del lavoro precario nelle nuove generazioni e a garantirle dal rischio e dalle preoccupazioni materiali e postmateriali. Il consumo è una vecchia categoria che ha ben poco da dire alle nuove generazioni di architetti, i quali si rendono conto che non ci siamo ancora neanche lasciati alle spalle del tutto il funzionalismo.
Se le proposte politiche degli architetti della vecchia generazione in un contesto post mortem sembrano patetiche forse è il caso di abbandonare qualsiasi pretesa politica tradizionale, compresa quella postmoderna. Noi pensiamo ad un progetto che nel suo concreto dispiegarsi sia un momento poetico, perché nelle zone liminari dove la politica tradizionale non è ancora arrivata a riconoscerne gli abitanti, c’è bisogno di poesia, ovvero di prefigurazioni e di immaginazione per nuove soluzioni.